martedì 3 novembre 2009

L'Europa e il crocifisso, la cristianofobia al potere


di Massimo Introvigne


Ci siamo. Da diverso tempo si accumulavano i segnali di un prossimo colpo delle istituzioni europee contro il cristianesimo e la Chiesa Cattolica. Qualche mese fa, il 4 marzo 2009, avevo avuto occasione di partecipare come esperto a Vienna a una conferenza dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) dove era stato lanciato l’allarme su una montante «cristianofobia», che in diversi Paesi non si limitava più alla propaganda ma si esprimeva in leggi e sentenze contro la libertà religiosa e di predicazione dei cristiani e contro i loro simboli. L’attacco anticristiano si era finora svolto in modo prevalentemente indiretto, attraverso la proclamazione di presunti «nuovi diritti»: anzitutto, quello degli omosessuali a non essere oggetto di giudizi critici o tali da mettere in dubbio che le unioni fra persone dello stesso sesso debbano godere degli stessi riconoscimenti di quelle fra un uomo e una donna. Tutelando gli omosessuali non solo – il che sarebbe ovvio e condivisibile – da violenze fisiche, ma da qualunque giudizio ritenuto discriminante ed etichettato come «omofobia», le istituzioni europee violavano fatalmente la libertà di predicazione di tutte quelle comunità religiose, Chiesa Cattolica in testa, le quali hanno come parte normale del loro insegnamento morale la tesi secondo cui la pratica omosessuale è un disordine oggettivo e uno Stato bene ordinato non può mettere sullo stesso piano le unioni omosessuali e il matrimonio eterosessuale. La sentenza «Lautsi c. Italie» del 3 novembre 2009 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo segna il passaggio della cristianofobia dalla fase indiretta a una diretta. Non ci si limita più a colpire il cristianesimo attraverso l’invenzione di «nuovi diritti» che, proclamando il loro normale insegnamento morale, le Chiese e comunità cristiane non potranno non violare, ma si attacca la fede cristiana al suo cuore, la croce. I giudici di Strasburgo – dando ragione a una cittadina italiana di origine finlandese – hanno affermato che l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche italiane viola i diritti dei due figli, di undici e tredici anni, della signora Lautsi, li «perturba emozionalmente» e nega la natura stessa della scuola pubblica che dovrebbe «inculcare agli allievi un pensiero critico». Ove tornasse in Finlandia, la signora Lautsi dovrebbe chiedere al suo Paese natale di cambiare la bandiera nazionale, dove come è noto figura una croce, con quale perturbazione emozionale dei suoi figlioli è facile immaginare. Basta questa considerazione paradossale per capire come, per qualunque persona di buon senso, la croce a scuola o sulla bandiera non è uno strumento di proselitismo religioso ma il simbolo di una storia plurisecolare che, piaccia o no, non avrebbe alcun senso senza il cristianesimo. In Italia la signora Lautsi intascherà cinquemila euro dai contribuenti – un piccolo omaggio della Corte di Strasburgo – e avrà diritto di far togliere i crocefissi dalle aule dove studiano i figli. Certo, ci sarà l’appello, e giustamente il nostro governo rifiuterà di applicare questa sentenza ridicola e folle. Ma le «toghe rosse» italiane si sentiranno incoraggiate dai colleghi europei. Che non sono tutti «stranieri» dal momento che uno dei firmatari della sentenza è il giudice italiano a Strasburgo, il dottor Vladimiro Zagrebelsky, campione – insieme al fratello minore Gustavo – del laicismo giuridico nostrano.

domenica 13 settembre 2009

La mitica stampa estera difende il killer Battisti


di Massimo Introvigne


Vi preoccupate di che cosa pensa dell’Italia la mitica “stampa estera”? Vi fate impressionare dagli attacchi dei giornali di Parigi? Soffrite di una malattia, ma è arrivata la cura. Basta leggersi quello che questi giornali scrivono a proposito del caso Battisti. Le Nouvel Observateur, querelato da Silvio Berlusconi per avere battuto perfino il record di offese e insulti di Repubblica, sentenzia che “uno scrittore – Battisti, infatti, scrive romanzi gialli – non è mai un latitante come gli altri” e considera la richiesta italiana di estradizione “arrogante”. E su molta stampa francese Battisti continua a essere presentato come un poveruomo perseguitato dalla “destra” e dal berlusconismo, con errori grossolani su tutta la sua vicenda.
La storia è tanto squallida quanto nota. Ladro e rapinatore convertito in carcere al terrorismo comunista, Battisti commette personalmente due omicidi ed è complice di altri due fra il 1978 e il 1979. Arrestato nel 1979, è liberato nel 1981 dai suoi compagni che assaltano il carcere di Frosinone. Scappa in Messico ed è poi accolto da una Francia molto tollerante verso i “militanti comunisti” italiani. Nel 2000 (attenzione alla data) il ministero della Giustizia italiano ne reclama l'estradizione sulla base delle nuove norme europee. La Francia non può fare altro che concederla, sia pure con ritardo, nel 2004. Ne nasce una mobilitazione nazionale contro il rischio che uno “scrittore francese” sia consegnato alla “vendetta di Berlusconi”, tuttora in corso. Dopo avere assicurato in televisione che non sarebbe scappato, nel 2004 Battisti fugge in Brasile per evitare l'estradizione. È probabile che la fuga sia stata favorita dai servizi francesi, per non esporre il governo alle critiche della stampa e dei gauchiste locali. Ed è un segreto di Pulcinella che sono pressioni di ambienti francesi a fare ostacolo all’estradizione dal Brasile in Italia.
Battisti è stato condannato in Italia in tre gradi di giudizio, fino alla Cassazione, in seguito a inchieste giudiziarie condotte, tra l'altro, da Luciano Violante e Giancarlo Caselli. La richiesta di estradizione è stata firmata nel 2000 dal Guardasigilli di allora, che si chiamava Piero Fassino. Sono questi i personaggi che – scrivono a Parigi senza paura di cadere nel ridicolo – si sarebbero fatti strumento della terribile “vendetta di Berlusconi”.Mentre pretendono di darci lezioni di diritto e di legalità, i giornali francesi dovrebbero semplicemente vergognarsi della protezione che offrono a un volgare assassino, anche per rispetto ai morti ammazzati da Battisti e alle loro famiglie. Infine, una domanda. Gli appelli francesi per Battisti risultano sottoscritti (oltre che dal solito Vauro, quello che fa i disegnini per Santoro in televisione) da un buon numero di esponenti di Rifondazione Comunista, Verdi e Comunisti Italiani. Il PD, che pensa di allearsi con questi partiti alle prossime elezioni regionali, ha qualche cosa da dire al riguardo?


12 settembre 2009 - Libero

giovedì 2 aprile 2009

L'Imperatore d'Austria che Papa Wojtyla tanto ammirava


di Renzo Allegri


Il primo di aprile di 87 anni fa moriva Carlo d’Asburgo Lorena, ultimo Imperatore d’Austria proclamato beato nell’ottobre del 2004. Alla morte aveva soltanto 34 anni ed era in esilio a Madeira, cacciato dal trono dalle nuove forze politiche che si erano rafforzate nel Paese dopo la prima guerra mondiale e che si opponevano a Carlo perché cattolico osservante e rappresentante di quell’antico Sacro romano impero che difendeva la Chiesa.
Il 2 aprile, invece, ricorre il quarto anniversario della morte di un altro grande, grandissimo uomo: Carlo Wojtyla e cioè Papa Giovanni Paolo II.
In due giorni si ricordano gli anniversari di un Imperatore già beato e di un Papa, che dovrebbe essere proclamato beato a breve. Austriaco il primo, polacco il secondo. Due eccezionali protagonisti della storia del secolo Ventesimo. Due persone che non si sono mai conosciute su questa terra, ma che erano legate dalla fede cristiana, dalla pratica eroica delle virtù evangeliche nella vita quotidiana e anche da un sottile e misterioso dettaglio affettivo: avevano avuto al battesimo lo stesso nome, Carlo.
In genere, nei libri biografici di Papa Giovanni Paolo II non si trova alcun cenno a questo dettaglio. Dai registri parrocchiali si sa che venne battezzato con due nomi: Karol Jozef (Carlo Giuseppe). Tutti i biografi hanno sempre scritto che il primo nome ricordava il padre del futuro Papa, che si chiamava appunto Karol (Carlo), mentre il secondo, Jozef, gli era stato dato in omaggio al generale Pilsudski, l’eroe fondatore della Repubblica Polacca.
Ma recentemente su questo argomento ho raccolto una testimonianza nuova e inedita. Uno dei tre figli viventi dell’Imperatore Carlo I Suoi altezza imperiale reale Arciduca Rodolfo, mi ha raccontato che lo stesso Giovanni Paolo II gli ha rivelato perché al battesimo fu chiamato Carlo. "Fu durante un’udienza privata che Papa Wojtyla concesse alla mia famiglia", mi ha raccontato l’Arciduca Rodolfo. "C’erano i miei figli, con le loro famiglie e c’era anche mia madre, l’Imperatrice Zita. Il Papa ci accolse con grande cordialità. Parlò con grande entusiasmo di mio padre, l’Imperatore Carlo. E rivolgendosi a mia madre, la chiamava “la mia Imperatrice” e ogni volta si inchinava verso di lei. Ad un certo momento disse: “Sapete perché al battesimo io fui chiamato Carlo? Proprio perché mio padre aveva una grande ammirazione per l’Imperatore Carlo I, di cui è stato un soldato".
Testimonianza molto significativa che spiega la costante ammirazione manifestata sempre da Giovanni Paolo II per l’Imperatore austriaco. Aveva imparato a conoscerlo dal proprio genitore, Karol Wojtyla senior, che era stato sottufficiale del 56° reggimento di fanteria dell’esercito austroungarico, quindi soldato dell’Imperatore Carlo I°. Fin da allora, Karol Wojtyla senior aveva intuito la grandezza morale e spirituale del suo Imperatore e se ne era entusiasmato al punto da dare al proprio figlio quel nome. E, mano a mano che il figlio cresceva, gli trasmetteva la vera storia di quell’Imperatore, confutando le dicerie e le calunnie diffuse da coloro che lo avevano cacciato dal trono.
Così, anche il futuro Papa imparò ad apprezzare il giovane e sfortunato Imperatore austriaco, vedendo in lui una rara e fulgida figura di sovrano giusto e leale, generoso e amorevole, pronto a qualsiasi sacrificio personale per il bene del popolo. Per questo, da Papa, ne sostenne apertamente e con entusiasmo il processo di beatificazione e quando potè celebrare la solenne cerimonia lo fece con gioia, indicando il sovrano austriaco come modello per tutti gli uomini politici.
Quando, nel 2004, venne diffusa la notizia che l’Imperatore Carlo I° d’Austria sarebbe stato beatificato, molti, anche in ambito cattolico, si meravigliarono. Trovavano strano che un Imperatore, cioè un uomo appartenente al mondo dei nobili, dei ricchi, dei potenti della terra potesse diventare santo.
I giornali ricordarono figure del passato: Re Stefano d’Ungheria, Sant’Agnese di Praga, Sant’Elisabetta d’Ungheria, Sant’Enrico II Imperatore, Santa Brigida di Svezia, San Luigi IX re di Francia, San Ferdinando re del Portogallo eccetera, sottolineando, però, che si trattava di “regnanti” vissuti in tempi molto lontani, quando i processi di beatificazione non erano rigorosi come lo sono ora, mentre Carlo I d’Austria era morto nel 1922, all’inizio del secolo scorso, meno di cento anni prima. Era un uomo giovane, intelligente, colto, bello, marito di una principessa bellissima, Zita dei Borboni Parma, dalla quale aveva avuto otto figli. Per la mentalità moderna, sembrava impossibile che una persona del genere avesse esercitato le virtù evangeliche in maniera eroica al punto da meritare la gloria degli altari.
Su di lui inoltre circolavano molti pregiudizi. Gli storici laici lo avevano sempre definito “un debole e un incapace”. Salito al trono nel 1916, quando era in pieno svolgimento la Prima guerra mondiale, lo incolpavano di non essere stato capace di vincere la guerra. Per questo, dopo il conflitto era stato esiliato dal suo Paese. Ma, poi, alla luce di una grande mole di documenti emersi al processo di beatificazione e di altri studi pubblicati dopo quel processo, si è scoperto invece che l’Imperatore Carlo I fu un politico lungimirante, che voleva il “bene vero” dei suoi sudditi, che aveva grandi idee d’avanguardia per l’Europa.
"Sì, il processo di beatificazione ha molto contribuito a cambiare il giudizio che gli storici avevano sempre dato su mio nonno", dice l’arciduchessa Catharina d’Austria, figlia dell’arciduca Rodolfo. "Finalmente, molti studiosi hanno cominciato a mettere da parte i pregiudizi derivanti dal fatto che mio padre era un cattolico praticante, e hanno iniziato a valutarne obbiettivamente le idee politiche, constatando che erano geniali".
Trentasei anni, laureata in Giurisprudenza e specializzata in Scienze politiche, Catharina d’Austria è autrice di vari saggi storici sui personaggi della propria famiglia e, naturalmente, anche lei grande appassionata della storia del suo illustre nonno
"Oggi per fortuna, molti riconoscono che mio nonno fu un illuminato pacifista, uno dei primi convinti sostenitori di una Grande Europa Unita, basata non sui conflitti armati ma sulla cooperazione, sul rispetto delle minoranze, delle autonomie, delle culture e delle singole persone. Se fosse stato ascoltato, l’Europa unita sarebbe nata molto prima, e certamente non ci sarebbero stati gli orrori della terribile Seconda guerra mondiale".
L’arciduchessa Catharina d’Austria, che ha sposato un italiano, il conte Massimiliano Secco d’Aragona, cittadino bresciano, è promotrice di varie iniziative a favore della conoscenza vera dell’Imperatore Carlo I d’Austria. A Brescia, dove spesso vive con il marito e i due figli, Costantino, 8 anni, e Nicolò, 6, ha patrocinato un centro culturale e religioso che ha lo scopo di far conoscere ed apprezzare la vita, l’opera e la santità del Beato Imperatore Carlo d’Austria. Questo centro ha sede nella parrocchia di San Gottardo, dove si conservano alcune reliquie dell’Imperatore. Al movimento hanno aderito importanti personalità del mondo cattolico, uomini politici, professori universitari, vescovi e prelati illustri. In quel centro, gestito dal parroco monsignor Arnaldo Morandi, si tengono convegni, conferenze, dibattiti per approfondire la conoscenza della politica cristiana di Carlo I Imperatore.
"Io sono la più piccola dei nipoti dell’Imperatore Carlo I", dice l’arciduchessa Catharina. "Ho imparato a conoscerlo soprattutto attraverso i racconti di mia nonna, l’Imperatrice Zita dei Borboni Parma. Passava molto tempo nella nostra casa a Bruxelles e io, essendo la più piccola, ero un po’ la sua coccola. Era religiosissima. Fu lei a insegnarmi il catechismo e a prepararmi per la Prima Comunione. Parlava sempre del nonno. Ne parlava con tale trasporto che era impossibile non rimanere affascinati. E, dai suoi racconti, mi sono fatta l’idea che il nonno non fu un santo solo da adulto, da Imperatore, ma da sempre, da ragazzo, da giovane, da fidanzato. Un grande santo".

A Roma, intanto, l’avvocato Andrea Ambrosi, postulatore della causa di beatificazione dell’Imperatore Carlo I d’Austria, sta lavorando per l’ultima tappa del processo: la “canonizzazione”, cioè la proclamazione della santità. Per raggiungere questo traguardo, la Chiesa richiede l’approvazione di un nuovo miracolo, avvenuto dopo che il soggetto era stato proclamato beato. E questo miracolo per l’Imperatore d’Austria Carlo I c’è già. Riguarda una signora americana, Tamara Staggs, di Orlando, in Florida. Nel 2002 fu colpita da tumore maligno alla mammella. Fu operata e sottoposta a chemioterapia, ma nel 2004 il male si ripresentò più grave, con metastasi anche al fegato. Medicine e terapie risultarono inutili. La situazione precipitava. I medici dissero che all’ammalata restavano pochi mesi di vita.
I coniugi Melancon, amici della signora Tamara, ma amici anche della famiglia del beato Carlo, dalla quale avevano ricevuto in dono una reliquia, cominciarono a pregare l’Imperatore per la guarigione della signora Tamara. La cosa sembrava un po’ “difficile” perchè la signora Tamara non era di religione cattolica, ma riuscirono egualmente a coinvolgerla nelle preghiere e, all’improvviso, arrivò la guarigione.
Il 19 gennaio 2005, una TAC evidenziava, in modo del tutto inatteso, la completa scomparsa delle metastasi epatiche. Successivi controlli, ripetuti periodicamente – l’ultimo nell’ottobre 2008 – hanno dimostrato che del male non c’è più alcuna traccia.
A Orlando è già stato fatto il processo diocesano per questa guarigione con le deposizioni giurate di tutti i testimoni e dei medici. L’incartamento è già a Roma. "Sono trascorsi tre anni dalla guarigione, quindi va ritenuta inconfutabile", dice il postulatore avvocato Ambrosi. "Ho già fatto esaminare il caso anche a un famoso oncologo dell’Università 'La Sapienza' di Roma, che lo ha ritenuto validissimo. Però, per avere la certezza assoluta, ho deciso di aspettare fino al 2010, cioè cinque anni dopo la guarigione. E sono certo che questo miracolo farà diventare presto Santo l’Imperatore d’Austria".


Zenit - 1 aprile 2009

mercoledì 11 marzo 2009

La povertà dei poveri è "colpa" dei ricchi?


di Padre Piero Gheddo


La cause radicali della povertà non sono né la colonizzazione, né le multinazionali né l’egoismo dei Paesi ricchi.
I ricchi del mondo hanno tante responsabilità e colpe, ma non quelle di essere stati la radice della povertà dei popoli poveri.
Mi fa pena quando leggo su libri e riviste non “popoli poveri” ma “popoli impoveriti”. E spiegano che, prima dell’incontro con la colonizzazione occidentale, ad esempio, i popoli africani o gli indios amazzonici, vivevano una vita naturale, felice, pacifica, solidale.
E’ la visione dell’Illuminismo, che non ammetteva il peccato originale: l’uomo nasce buono, la società lo rende cattivo. Ma è una visione ideologica del tutto contraria alla realtà storica.
Basta leggere le biografie dei primi missionari che sono venuti a contatto con popoli anche prima dell’intervento coloniale. Ad esempio i missionari del Pime sono andati nella Birmania orientale nel 1868, quando la colonizzazione inglese, in quelle regioni abitate da popolazioni tribali che vivevano all’età della pietra (non conoscevano il ferro), è iniziata verso la fine del secolo XIX.
Ebbene, i missionari scrivevano che le tribù erano continuamente in guerra fra di loro e descrivono la loro vita grama dicendo che era una vita disumana, poco al di sopra di quella degli animali. Altro che “impoveriti”! Anzi i tribali della Birmania si sono evoluti proprio con l’azione dei missionari, che hanno portato la pace, insegnato a fare e coltivare le risaie (prima erano nomadi), aperto le strade e le scuole, portato la medicina moderna, studiato le loro lingue e fatto vocabolari e raccolte di loro proverbi e racconti e via dicendo.
I “no global” avevano coniato, nel 2001 al G8 di Genova, uno slogan efficace “noi siamo ricchi perché loro sono poveri e loro sono poveri perché noi siamo ricchi”. Dico sempre che non si aiutano i poveri raccontando bugie. Come l’altro slogan: “Il 10% della popolazione mondiale consuma il 90% delle risorse ed il 90% degli uomini consumano solo il 10% delle risorse disponibili”. Io dico che bisogna correggere così: “il 10% degli uomini producono e consumano il 90% delle risorse, il 90% degli uomini producono e consumano il 10% delle risorse”.
Il problema in radice è che prima bisogna produrre e poi consumare: si consuma se si produce e nei Paesi poveri non si produce abbastanza per mantenere il ritmo di crescita della popolazione.
L’Africa è passata da 300 milioni di abitanti nel 1960 a più di 800 di oggi, ma l’agricoltura di base è ancora in buona parte ferma all’epoca coloniale. Alcuni “catastrofisti” dicono che ci sono troppi uomini per poter vincere la fame. Non è vero, il Giappone che ha 342 abitanti per chilometro quadrato (l’Italia 194), una delle densità più alte del mondo e in un Paese tutto montagnoso (è coltivabile solo il 19% del territorio) e dal clima infelice, è autosufficiente nel cibo di base che consuma, cioè il riso.
La fame non deriva dai troppi uomini e donne, ma dal fatto che non sono istruiti, educati a produrre di più, oltre al livello della pura sussistenza.
Ma questo in Occidente non si vuol sentire perché chiama in causa la nostra vera responsabilità, che non è di non aiutare maggiormente e finanziariamente i Paesi poveri e di non pagare con giustizia le loro materie prime (anche questo, ma non anzitutto questo), bensì di non contribuire ad educarli per diventare autosufficienti, prima di tutto nella produzione di cibo e poi di tutto il resto.
Il distacco fra ricchi e poveri nel mondo non è anzitutto un fatto economico, ma culturale-politico. Mentre in Europa, dopo secoli di lento cammino verso l’industria e l’agricoltura moderna, siamo giunti ad avere le tecniche, le capacità, la mentalità imprenditoriale e lavorativa (oltre alla democrazia e al libero mercato), molti popoli del Sud del mondo sono passati, alla fine dell’Ottocento o inizio del Novecento, dalla preistoria (cioè assenza di lingue scritte) alla modernità in un secolo, con due guerre mondiali in mezzo!
In situazioni come questa è superfluo dire che loro hanno grandi valori umani, che sono giovani e intelligenti e simpatici, pieni di buona volontà. Queste cose le so benissimo anch’io, ma il balzo culturale dalla preistoria al computer e all’aereo si può assorbire da parte di alcuni in senso tecnico, non in senso culturale.
Le masse popolari usano bene il telefonino e la televisione, ma la testa, le abitudini, i costumi di vita, la mentalità di fondo sono rimasti più o meno al tempo passato. Le fedi religiose e le culture non si cambiano rapidamente, ci vuole tempo. Questo è il ritornello che più sento ripetere dai missionari che vivono una vita con i popoli poveri, ma che in Occidente ancora non si capisce o non si vuol ammettere.
Nel dicembre 2007 sono stato in Camerun, uno dei Paesi modello dell’Africa a sud del Sahara: esteso una volta e mezzo l’Italia, con 18 milioni di abitanti, politicamente stabile, senza guerre o guerre intestine, con una passabile forma di democrazia e libertà di stampa. Crescita economica annuale dal 2 al3% del Pil. Reddito medio pro-capite: 800 dollari l’anno, quando in molti Paesi africani è dai 100 ai 300 dollari (l’Italia è poco sotto i 30.000 dollari). Debito estero quasi inesistente, poche decine di milioni.
Tutto bene, ma il fatto è che il Camerun produce poco o nulla in campo industriale. Non ha una vera industria, ma solo cementifici, produzione tessile e dello zucchero, di birra e di sigarette, sgranatura del cotone, poco altro. Importa quasi tutti i beni moderni, comprese lampadine e frigoriferi, esportando ricchezze naturali (petrolio, minerali vari, legno) e prodotti agricoli. E una crescita economica senza industria non è possibile.
Il secondo cancro del Camerun è la corruzione a livello politico e amministrativo, statale. Nella lista dei Paesi più corrotti del mondo stilata dall’Onu, il Camerun è sempre nei primi posti; nel 2007 era addirittura il primo. Non è colpa specifica di questo o quel capo di Stato o amministratore, è un costume che deriva dalla mentalità: quando uno ha il potere deve pensare anzitutto alla sua etnia, tribù, villaggio, famiglia. E’ un cancro diffusissimo in tutta l’Africa – e non solo in essa, naturalmente – che laggiù frena moltissimo lo sviluppo, perchè i sussidi e i doni che si ricevono dall’Onu o da altri Stati finiscono quasi tutti nelle tasche appunto di chi detiene il potere.
E, ripeto, questo vale per i governanti ad alto livello e per gli amministratori, i militari, eccetera, ma anche per chi ha qualsiasi potere sugli altri. Ci sono eccezioni certo, ma il malcostume di cui tutti parlano è questo. Queste sono le vere radici del sottosviluppo.
Lo sviluppo è un fatto non solo tecnico ed economico, ma parte anzitutto dalla cultura, dall’istruzione: è opera dell’uomo e non dei soldi, parte dall’uomo e non dalle macchine, nasce in un popolo attraverso l’educazione, la quale però è un processo lungo, paziente, che non si fa con interventi d’emergenza, ma vivendo assieme ad un popolo. Noi occidentali facciamo pochissimo per l’educazione dei popoli poveri, anche perché non si parla mai di valori culturali e religiosi che portano allo sviluppo: è un tema ignorato dai mass media e dagli ‘esperti’ occidentali, che privilegiano gli aiuti economici e tecnici.


5 marzo 2009 - www.zenit.org

mercoledì 11 febbraio 2009

Un grido inascoltato: ‘Ho sete’. Eluana è morta, ingiustizia è fatta. Ma i suoi assassini non siederanno al banchetto di Dio con lei

di Gianluca Barile

‘Ho sete’, dice Gesù sulla Croce prima di esalare l’ultimo respiro. ‘Ho sete’, avrà pensato Eluana Englaro negli ultimi giorni del suo doloroso pellegrinaggio terreno. ‘Ho sete’, esclama adesso ogni persona di buona volontà davanti all’efferato omicidio della giovane donna consumato in una fredda ‘cella della morte’ in stile Auschwitz allestita, per volere del padre e con il permesso della Magistratura, in una - sinora - anonima struttura medica privata di Udine che, a dimostrazione di quanto sia stata beffarda la sorte con la vittima di questo omicidio, di nome fa ‘La Quiete’. Ebbene sì: ora che questa creatura innocente non c’è più, è scattata una ‘sete’ collettiva: una sete di verità e di giustizia! Perché se è vero - e non ne abbiamo dubbi - che adesso Eluana gode il suo meritato riposo al cospetto del Signore, è altrettanto vero che nessuno - non il padre, né i medici, né i giudici - aveva il diritto di condannarla al peggiore dei supplizi: l’agonia e il decesso per fame e sete. Ma tant’è: come agnello condotto al macello, Eluana non è riuscita a fuggire dalle mani dei suoi aguzzini. Troppo ‘ingombrante’ quel corpo, anche per il Capo dello Stato, perché potesse continuare a vivere. Perché Eluana era viva! Respirava autonomamente, si addormentava e si svegliava da sola, era una donna di 38 anni addirittura in grado di poter partorire. Ma il dolore, si sa, nell’epoca dell’immagine, è qualcosa di insopportabile, di inguardabile, di orrido! Più comodo far morire Eluana, possibilmente prima che potesse intervenire il Parlamento, piuttosto che continuare ad assisterla nel suo assordante silenzio; un silenzio che chiedeva solo carità, aiuto, vicinanza, qualche carezza e una parola dolce. Eluana, negli ultimi giorni, non ha avuto nulla di tutto ciò: quando ha rimesso l’anima a Dio, non c’era a stringerle la mano nemmeno un familiare. Presenti, invece, i medici e gli infermieri che, ‘solerti’, hanno fatto tutto il possibile, come dei novelli ‘dottor morte’, affinché l’illustre paziente, come prevedeva il loro ‘protocollo funebre’, perisse. Ecco la perdita del senso del peccato; ecco l’uomo che si sostituisce a Dio; ecco la vittoria - grazie a Dio solo apparente - del Male sul Bene. Ma solo il Signore ha l’ultima parola, ed è Parola di vita eterna! Hanno potuto ammazzare il corpo di Eluana, ma non la sua anima, che ora è in Paradiso e, piena di Spirito Santo, dimora tra gli Angeli e i Santi contemplando il volto di Cristo nell’immensità della luce di Dio Padre e sotto il manto protettivo di Maria. Ma dell’anima degli assassini di Eluana, cosa sarà? Spetterà a Dio, Signore dei vivi e dei morti, l’ultima parola. Ma se non si pentiranno, se non si convertiranno, se non chiederanno perdono per quello che hanno fatto, è facile immaginare il triste scenario della dannazione eterna: i malfattori non siederanno accanto ai giusti al banchetto di Dio! Lo gridiamo ad alta voce, carichi di dolore, e pazienza che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, abbia esortato gli italiani al silenzio. Perchè prima che italiani, siamo cristiani; perchè Dio è testimone del fatto che se finanche il mondo intero potesse tacere davanti all’assassinio di Eluana Englaro, una voce sola, fortissima, assordante, amplificata dall’eco dell’eternità, non potrebbe più essere cancellata. E con essa, un urlo straziante: ‘Ho sete’.

mercoledì 4 febbraio 2009

Se questa è una donna

di Riccardo Cascioli

“Lei è una donna. Una donna di trentotto anni: ha la mia stessa età. Ha il ciclo mestruale come ogni donna. Apre gli occhi di giorno e li chiude la notte. Respira benissimo e da sola, serenamente. Il suo cuore batte da solo, tenace e forte. Ci sono momenti nei quali forse sorride e altri nei quali forse socchiude gli occhi. Ma quanti sanno davvero che Eluana non è attaccata a nessuna macchina? Quanti sanno che nella sua stanza non c’è un macchinario, ma due orsacchiotti di peluche sul suo letto? Che non ha una piaga da decubito? Che in diciassette anni non ha preso un antibiotico?”. Così ha parlato Margherita Coletta, la vedova di un carabiniere ucciso nell’attentato di Nassiriya (Iraq) il 12 novembre 2003, che negli ultimi mesi ha visitato più volte Eluana Englaro nella clinica di Lecco dove era ricoverata da 15 anni e che ha intessuto un rapporto di amicizia con Beppino, il padre di Eluana. Margherita Coletta ha parlato in una intervista pubblicata da Avvenire oggi, 4 febbraio 2009, in in cui racconta la sua esperienza con Beppino ed Eluana. Un’intervista tutta da leggere, ma quelle parole citate all’inizio sono da meditare e riproporre ovunque perché spezzano quel muro di ipocrisia e malignità che un gruppo di sciacalli ha eretto intorno alla famiglia Englaro, sfruttando il dolore di un padre evidentemente disorientato: “Credo sia soprattutto lui in uno stato simile a quello vegetativo”, ha detto di lui Margherita Coletta, con una espressione di filiale affetto.
Ieri sera al TG1 abbiamo assistito al vertice di questa “danza del male”, con l’intervista al primario anestesista della clinica “La Quiete” di Udine, Amato Da Monte, l’uomo che ha coordinato la “deportazione” di Eluana dalla clinica della vita alla camera della morte. Di notte; l’habitat naturale del “principe delle tenebre”. Alla domanda della giornalista che chiedeva sulla possibile sofferenza di Eluana, Da Monte ha risposto: “Eluana è morta 17 anni fa”. Rileggiamo quanto detto da Margherita Coletta: risulta al professor Da Monte che le persone morte aprano gli occhi di giorno, sorridano, abbiano il ciclo mestruale, respirino senza problema, abbiano il cuore che batte autonomamente? E se è così convinto che Eluana sia già morta, perché pensa di somministrarle dei sedativi durante il procedimento di sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione? Solo chi è morto dentro può capovolgere la realtà fino a questo punto. E proprio lui aveva detto all’inizio dell’intervista che vedendo Eluana per la prima volta si sentiva “devastato”, perché era così diversa dalle foto che da mesi scorrono in tv e sui giornali e che si riferiscono ad Eluana prima dell’incidente. Certo che è molto diversa, così come lo stesso dottor Da Monte è diverso rispetto a 17 anni fa. E’ ciò che accade ai vivi: si cresce, si invecchia. Dei morti, invece, dopo 17 anni restano soltanto le ossa. Ma per Da Monte, Eluana è morta 17 anni fa.
La responsabilità di questa barbarie però, non si può scaricare evidentemente sul solo dottor Da Monte. Egli è soltanto l’immagine fedele di questa nostra società composta di “morti che camminano”, incapaci di dare o almeno di cercare un senso alla realtà, alla sofferenza come alla gioia, al lavoro come al riposo, incapaci di essere uomini e donne. E’ l’immagine dei tanti sciacalli che si sono avventati su Eluana, come prima avevano fatto con Welby, per imporre un’ideologia di morte, a cominciare dai militanti del Partito radicale e i loro avvocati che hanno spinto Beppino Englaro a portare fino in fondo un atto che lo tormenterà fino alla fine dei suoi giorni. E’ l’immagine dei tanti Ponzio Pilato che affollano gli scranni dei tribunali italiani - e non solo -, che davanti a una evidente invasione di campo di qualche giudice militante, si preoccupano soltanto di stabilire la legittimità formale delle sentenze: la frase è corretta, l’inchiostro è giusto, si proceda all’esecuzione. E ci si permetta qui di correggere il presidente Napolitano, che ha invocato subito una legge sul testamento biologico perché i magistrati della Cassazione si sono inseriti in un vuoto legislativo. Caro presidente, non c’era alcun vuoto legislativo in Italia a proposito di eutanasia: essa è vietata, punto e basta. I giudici hanno compiuto un vero e proprio colpo di mano, e l’unica legge buona sarà quella che impedirà ad altri giudici di perseguire la stessa strada.
Tornando al discorso precedente, il dottor Da Monte è anche l’immagine nauseante di tanti politici incapaci di chiamare le cose con il loro nome e che si trincerano dietro il “rispetto per il dolore della famiglia” per avallare un atto che segna la condanna a morte, non di Eluana, ma dell’intera nostra società di cui dovrebbero essere loro i primi difensori.
E’ infine anche una domanda su ciascuno di noi, se abbiamo fatto tutto il possibile per affermare il Bene, per rispettare la vita di Eluana e sostenere il padre Beppino nella sofferenza.
E’ vero comunque che in tutta questa vicenda sono emersi anche segnali di speranza: abbiamo visto una grande mobilitazione di persone comuni sdegnate per questa barbarie, mobilitate nell’estremo tentativo di salvare Eluana. Segno che la sensibilità per la vita non è morta nel nostro popolo. E abbiamo visto anche dei politici fare il loro possibile per fermare la deriva di questa società, a cominciare dal ministro Sacconi e dal governatore della Lombardia Formigoni
Questo ci aiuta anche a vedere che la partita ancora non è finita. Abbiamo ancora tutti la possibilità di fare qualcosa.
Anzitutto pregare. Pregare perché il Signore apra il cuore a Beppino Englaro, che lo faccia rinsavire e comprendere la gravità del gesto che sta per compiere.E poi fare pressione con tutti i mezzi possibili: manifestazioni, ma anche lettere a giornali, tv. E soprattutto a coloro che stanno per alzare la mano su Eluana: i responsabili della clinica La Quiete e il Comune di Udine che ha fatto da ponte.Per facilitarvi, ecco alcuni recapiti:
Clinica: indirizzo e-mail:
segreteria@laquieteudine.itPer il telefono telefonare a: Ufficio Segreteria dell'Asp "La Quiete", laresponsabile dell'ufficio è la sig.ra Barbara Duriavig, tel. 0432-8862216oppure 0432-8862214, fax. 0432-26460Comune: indirizzo e-mail: urp@comune.udine.itFax: 0432 - 271355