mercoledì 8 giugno 2011

L'ora dei conservatori, altro che moderazione !


di Marco Invernizzi




Accanto alla sconfitta del centro-destra, le elezioni amministrative recenti hanno segnato anche alcuni problemi per i “principi non negoziabili”. Il problema anzitutto riguarda il fatto che questi principi non sono riusciti a entrare nel vivo della competizione.

Nonostante il Magistero sia stato molto chiaro, dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 2002 al discorso di Benedetto XVI al Partito popolare europeo il 30 marzo 2006 e successivamente, pochi insistono su questi valori, pochi ci credono e li utilizzano, alcuni addirittura li contestano e li sostituiscono con altri, come è avvenuto in occasione delle elezioni di Milano, dove sacerdoti e laici cattolici hanno sostenuto il candidato Giuliano Pisapia il cui programma e la cui storia culturale e politica sono evidentemente contrarie ai principi non negoziabili.

Ma il vero problema mi pare sia proprio nel fatto che questo criterio di scelta non venga utilizzato, aldilà della scelta concreta che poi viene fatta.

Abbiamo già affrontato su La Bussola Quotidiana il tema che i principi non negoziabili di per sé non esauriscono la dottrina sociale della Chiesa. Essi hanno bisogno di una cultura politica che li sostenga e li accompagni, che si adatti al tipo di elezione (amministrativa, politica, europea), ma che poi ne tenga veramente conto, senza timidezza.

Oggettivamente questo non avviene neppure nel centro-destra, che pure è stata la coalizione indubbiamente più sensibile (o meno ostile) ai principi non negoziabili, con l’eccezione vistosa e stonata del ministro Mara Carfagna, che però appunto sembra un caso circoscritto a una persona. Un discorso a parte meriterà l’Udc, a parole molto attenta ai principi non negoziabili, ma nei fatti spesso allineata contro chi li difende pubblicamente, come nel caso eclatante delle elezioni regionali del Piemonte dello scorso anno, quando il partito di Casini si schierò contro i movimenti e le associazioni cattoliche che stabilirono un Patto per la vita e la famiglia con il candidato del centro-destra poi risultato vincente.

Il caso piemontese è importante perché a tutt’oggi forse rappresenta il principale esempio di come si possa cercare di rendere visibili e importanti i principi non negoziabili in una competizione politica.

Questo infatti è il problema, che abbiamo già cominciato ad affrontare con gli interventi del vescovo di Trieste mons. Giampaolo Crepaldi e di Stefano Fontana.

Si tratta infatti di costruire una cultura politica a partire e a sostegno dei principi non negoziabili e poi di organizzare delle alleanze prepartitiche che spingano partiti e candidati a tenerne conto. Soltanto così essi potrebbero diventare centrali e forse determinanti. Qualcosa del genere è stato fatto a Milano dall’associazione Nuove Onde nel passato, con buoni risultati, come ho già ricordato, ma moltissimo deve essere ancora fatto, soprattutto a livello di sensibilizzazione culturale.
Una osservazione preliminare riguarda il termine con cui si usa legare fra loro le diverse culture politiche che costituiscono la coalizione del centro-destra. Il termine corrente è moderati, e si dice che compito del centro-destra sia quello di unire tutti i moderati. Ma moderati in che cosa? Nel sostenere i valori costitutivi della coalizione? E perché se tali valori sono ritenuti importanti? Se un candidato di centro-destra dovesse sostenere con forza i principi non negoziabili come fondamento della sua scelta politica, sarebbe un non-moderato e quindi estraneo al centro-destra?
Il moderatismo non è un principio culturale ma un atteggiamento del carattere e del comportamento della persona. Moderato è chi appunto sa controllare i propri atteggiamenti, le proprie emozioni, anche le proprie ragioni e passioni. Nella campagna elettorale di Milano è apparso moderato nei toni il candidato di sinistra che aveva un programma ostile ai principi non negoziabili, mentre a destra si sono levati atteggiamenti giudicati estremisti (a torto o a ragione, non è questo il punto).

Se si vuole costruire una cultura politica che parta dai principi non negoziabili bisogna rivolgersi a una parola tabù nella cultura dominante, il conservatorismo. Il 4 novembre 2007, intervistato dal Corriere della Sera, il card. Ruini ricordava che conservatorismo ha anche un aspetto positivo, quello appunto di voler conservare qualcosa di fondamentale e irrinunciabile. In realtà, il conservatorismo non è ostile allo sviluppo o ai cambiamenti, ma vuole comunque tenere ferme alcune verità dalle quali una cultura politica non può prescindere. Tutto il resto è riformabile e migliorabile, senza però buttare via l’essenziale e ricordando che l’alternativa alle rivoluzioni sono le riforme, o almeno alcune riforme.

Nella storia dell’Italia moderna non c’è mai stato un partito conservatore, per diverse ragioni, ma è sempre esistito, dal Patto Gentiloni al 18 aprile 1948 e alle elezioni del 1994, un popolo che ha combattuto per conservare e ripartire dalle radici cristiane della nazione, rifiutando le diverse proposte rivoluzionarie che gli venivano offerte, si chiamassero socialismo, fascismo, azionismo o comunismo. E rifiutandole con vigore, senza troppa moderazione.

sabato 4 dicembre 2010

Il "salto" di Fini e il voto di un cattolico

di Carmelo Bonvegna


Anche se non sappiamo se si voterà a primavera, da cattolico, voglio affermare sin d’ora che l’on. Fini non avrà il mio voto. Non tanto perché – come dicono tutti – è un “voltagabbana” e ha “tradito” Berlusconi, il “benefattore” che nel ‘93 lo aveva “sdoganato”, ché, a questa stregua, il Parlamento e il mondo della politica al completo sarebbero sentine affollate di “traditori” e di “tradimenti”; né perché avrebbe cambiato idea su alleanze e prospettive che in quel campo, com’è noto, sono quasi sempre temporanee e mutevoli e quindi, purtroppo, tutte “legittime”; quanto perché, in questi ultimi anni, della visione “cattolica” della società che noi ingenui gli attribuivamo non è rimasto proprio nulla.

Poi, improvvisamente, qualcosa si è rotto: fu in occasione del famoso referendum sulla “legge 40” (12-13 giugno 2005) in cui lui e i cosiddetti cattolici “adulti”, primi della classe come la sig.na Bindi, corsero a votare insieme ai post-comunisti e ai radicali e persero rovinosamente, mentre i tre quarti degli italiani, molti dietro consiglio del cardinale Ruini, preferirono l’astensione, facendo naufragare nel ridicolo la manovra della Sinistra coalizzata. Penso sia cominciata in quel momento la deriva del “nostro” che, a quanto pare, non si è più fermata e, anzi, continua tuttora a grande velocità.

D’allora, infatti, dopo la precedente sparata che Mussolini era stato il più “grande” politico del ‘900, l’on. Fini non ha perso occasione per smarcarsi dalla Destra e, talora, scavalcare la stessa Sinistra. Anche qui, intendiamoci, nulla da obbiettare, se si tratta di materia su cui i pareri possono essere opinabili; la stessa cosa, però, secondo noi cattolici, non può dirsi se il discorso cade su quei valori che chiamiamo “non negoziabili”, cioè quelli che riguardano il diritto naturale quali l’inizio e fine vita e la famiglia; ma anche su tali argomenti egli si è via via allineato coi post-comunisti e i radicali, sempre più allontanandosi dal modello a cui guarda la più parte degli italiani; pertanto diventa impossibile per noi inseguirlo in questa sua fuga verso il “partito radicale di massa”.

Particolarmente sconcertati, a dir poco, siamo rimasti noi della generazione che nel Sessantotto avevamo combattuto duramente e rischiato ogni giorno nelle università contro la “rivoluzione” comunista che, in ritardo giovani borghesi in eskimo, volevano imporre con la violenza alla nostra patria. In quel passaggio drammatico della Storia ci eravamo trovati spesso fianco a fianco nelle aule e nelle piazze con studenti della Destra politica in cui Fini, “giovine” allora di belle speranze, faceva le sue prime prove. Parecchi di loro alzavano il braccio nel saluto romano per darsi coraggio e mostravano i muscoli, altri leggevano e mischiavano Evola, Guenon, Maurras, Thibon, Nietzsche, Mordini, Sant’Agostino, Codreanu, Pound… ed erano convinti di dover fare “un’altra rivoluzione” anche se di segno contrario a quella comunista: ne derivava una grande e pericolosa confusione! Diversi, poi, per fortuna, sorgendo dagli “uomini e le rovine” evoliane, si convertirono alla pratica della Fede con un percorso spirituale, controcorrente rispetto alla marea montante e, pur nel bailamme di quegli anni, riscoprirono il Cristianesimo come ultima e sicura tappa di arrivo: si convinsero che per reagire bisognava fare non “un’altra” rivoluzione ma semplicemente “il contrario” della rivoluzione cominciando dall’“interiore homine”, tentando, cioè, di restaurare un “ordine” spirituale e materiale che il Sessantotto, in nome della libertà assoluta e fra gli applausi di molti chierici, andava distruggendo a man salva prima nell’uomo singolo, e poi nella famiglia, nella scuola, nella Chiesa, nella società intera... Io, da subito, feci parte di questo gruppo e talora fui protagonista in prima persona. Così, dove la rivoluzione sfasciava la famiglia e preparava la divisione, il divorzio e la solitudine, i “controrivoluzionari” alzavamo fortificazioni per difenderla come il diritto naturale l’aveva voluta; dove si cominciava a parlare di aborto e di “diritto” della donna ad usarne, si rispose che esso era vera e propria uccisione di un innocente nel grembo della madre; dove la rivoluzione sessuale predicava la libertà assoluta e il disordine nei rapporti tra maschio e femmina (anche tra adulti e bambini!), si rispondeva che l’autodisciplina del proprio corpo era il presupposto non solo per l’ordine individuale ma anche per quello sociale; dove loro, durante le occupazioni delle università, diffondevano la droga e dicevano e scrivevano – io ricordo! – che faceva bene alla mente ed “era determinante per la distruzione delle inibizioni”, noi, al contrario, rispondevamo che essa faceva male e che, aggiunta alla rivoluzione sessuale, sarebbe stata l’estrema follia per molti ragazzi, come oggi avviene…!

Ad ogni modo, col disfacimento della cosiddetta Prima Repubblica, tutti coloro che gravitavano nell’ambito culturale della Destra, “convertiti” o meno che fossero, si trovarono quasi naturalmente collocati accanto ai cattolici di sempre e il giovane Fini sembrava essere uomo qualificato a rappresentarli in questa “nuova” temperie politica; ecco perché la sua metamorfosi ci lascia sempre più sbalorditi man mano che gli vediamo acquisire i “vizi” della “modernità” come quando soggiace alla vieta e volgare abitudine degli intellettuali laicisti nostrani che prendono sempre a modello le nazioni dell’Europa del Nord, quelle della Riforma del secolo XVI, come se da esse dovesse discendere anche per l’Italia, “arretrata” e “poveretta” per colpa del Cattolicesimo romano, la luce del “buono” e del “bello” assoluti. E infatti nel recente discorso di Bastia Umbra, per la fondazione di “Futuro e Libertà”, egli, copiando dall’amico Zapatero, dice che “in Italia dobbiamo colmare il divario e allinearci agli standard europei sulla tutela delle famiglie di fatto e quelle tradizionali”, dove “divario” significa arretratezza e l’aggettivo “tradizionali” nella prosa finiana ha valenza di “superato” e di “negativo”; poi, scendendo nel particolare, aggiunge: “non c’è in nessuna parte dell’Europa un movimento politico come il PDL [il partito fondato da lui e da Berlusconi] che sui diritti civili sia così arretrato”.

Al di là del tono supponente che fa pensare ai tipici scritti di “Repubblica”, giornale il più anticattolico sulla piazza, se l’aggettivo “arretrato” fa il paio con “tradizionali”, come sembra, allora dobbiamo concludere che il “salto” di Fini è il più lungo che si possa immaginare; da queste sue parole, infatti, appare chiaro il contrasto con la Famiglia vera come noi cattolici la intendiamo: essa, secondo lui, sarebbe “arretrata” proprio perché “tradizionale”, cioè “cristiana”! A proposito di tali sue parole, “Avvenire” (9-XI-10) parla giustamente di “bizzarro, deludente e rischioso argomentare”. A questo punto possiamo stare sicuri che anche su altri principi “non negoziabili”, come, ad esempio, il “suicidio assistito”, egli sia ormai in rotta di collisione con la Dottrina della Chiesa a cui io, invece, fermamente credo essendo, questa, a ben vedere, l’unica tavola che non affonda nel nullismo della società attuale.

Sì, il “salto” di Fini verso il “partito radicale di massa” ormai è evidente a tutti e – stando così le cose – irrimediabile e definitivo. Pertanto, sicuramente non avrà il mio voto!

martedì 18 maggio 2010

Risorgimento e Resistenza, due nodi della storia italiana


di Marco Invernizzi




Parto da un dato di fatto che per certi versi è all’origine del problema dell’identità degl’italiani nel nostro tempo, a centocinquant’anni dalla formazione dello Stato unitario.

Quando parliamo di Risorgimento e di Resistenza indubbiamente ci troviamo di fronte ai due eventi storici che vengono evocati dalle istituzioni dello Stato — il 15 aprile 2010 Giorgio Napolitano ha parlato dell’unità del 1861 come "una grande stella polare" (1), che guidato il cambiamento nel Paese — e dalla maggior parte degli storici accademici come punti di riferimento imprescindibili per determinare il sentimento di appartenenza nazionale.

Ma è altrettanto vero che questi due "pilastri", nonostante le massicce dosi di "educazione civica" impartita obbligatoriamente in tutte le scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e private, non sono considerati del tutto tali dalla comunità nazionale. Ciò si verifica naturalmente in grado diverso a misura dell’istruzione, dell’ideologizzazione e del vissuto di ciascuno, ma in misura sufficiente per poter affermare che entrambi gli eventi non riescono a svolgere il ruolo esemplare che è stato loro assegnato.

Il motivo di questa insufficiente adesione credo sia da ricercare nel carattere mitologico, ergo ideologico, che accomuna i due momenti della storia italiana, cioè nella loro sostanziale astrattezza e non rispondenza ai sentimenti e — perché no? — agl’interessi concreti della maggioranza dei cittadini. Infatti sia il Risorgimento sia la Resistenza hanno contribuito in maniera cospicua al venir meno di una concezione della vita condivisa perché fondata su principi e su esperienze universali — quello che alcuni studiosi hanno sintetizzato con il termine "senso comune" — diffondendo, spesso con l’uso della violenza, visioni del mondo e della società lontane e mutuate da filosofie sociali utopistiche.

Provo a esaminare le due questioni, separandole anche per cercare di mostrare le similitudini e le differenze.

1. Il Risorgimento

Il Risorgimento aveva alle spalle, in senso cronologico, e davanti a sé, almeno come punto di riferimento ideale, la madre di tutte le rivoluzioni, almeno nella modernità, la Rivoluzione francese. Non tutti gli studiosi concordano nel fare in qualche modo dipendere il Risorgimento dalla Rivoluzione francese e, soprattutto i sostenitori di un’interpretazione moderata, nazionalista e sabauda del processo di unificazione politica dell’Italia, tendono a privilegiare le radici e i protagonisti autoctoni del moto risorgimentale. Queste radici indubbiamente vi furono e possono essere racchiuse in uno dei termini con cui si definisce, a torto, il Risorgimento, ossia l’unità. L’unificazione della Penisola, prima divisa in diversi Stati regionali, alcuni plurisecolari, in un unico organismo politico fu certamente uno dei due motivi che hanno dominato la nascita dell’Italia moderna ed è una caratteristica assente nella Rivoluzione del 1789 in Francia.

Ma l’unificazione sarebbe potuta avvenire in modi diversi, per esempio secondo lo schema federalistico del movimento neo-guelfo, che non voleva contrapporsi alla Chiesa, oppure, al contrario, seguendo la prospettiva repubblicana, sostenuta dalle forze che si ispiravano a Giuseppe Mazzini e a Carlo Cattaneo. Invece venne attuata in obbedienza ai teoremi della prospettiva ispirata a una forma temperata di liberalismo e a un forte nazionalismo, che si intrecciavano e si mescolavano agl’interessi geo-politici del Regno di Sardegna. Che tale prospettiva ideologica avesse un debito evidente nei confronti della Rivoluzione francese e in particolare del ventennio della dominazione napoleonica in Italia (1796-1815), mi sembra evidente.

L’unificazione, fatto in sé positivo, venne attuata in maniera inseparabile da un progetto di rinnovamento degli assetti culturali e politici, che ebbe modalità ed effetti dirompenti nei confronti di un passato plurisecolare comune dei popoli italiani.

Il Ri-sorgimento dell’Italia, quello che avvenne nella realtà, si tradusse invece in emarginazione completa delle classi politiche preunitarie, in mortificazione delle antiche capitali, in esproprio totale delle risorse materiali e immateriali — pensiamo ai codici, agli statuti delle autonomie, alle opere di carità — dei vari regni e principati soppressi, in dispersione totale dei patrimoni di esperienza accumulati in secoli di unità culturale, in eversione radicale dei cicli economico-sociali — incluse le migrazioni — regionali e interregionali. A vantaggio di un forte accentramento politico e di una pesante uniformità amministrativa, attuando una secolarizzazione esasperata e combattendo con l’esercito ogni conato di resistenza.

Il che portava inevitabilmente a uno scontro diretto con la Chiesa cattolica, non soltanto a causa del potere temporale che il Pontefice esercitava su una parte del territorio italiano, ma anche e soprattutto perché l’ideologia risorgimentale prevedeva che il Paese attuasse uno stacco più o meno radicale dalle sue radici cristiane.

Si aprì così una serie di questioni, meglio, di ferite, che la comunità nazionale non ha ancora risolto centocinquant’anni dopo la sua unificazione politica.

Nacque allora — certamente almeno a partire dal 1848, dopo il rifiuto di Papa Pio IX (1846-1878) di muovere guerra a fianco dei sardi contro l’Impero austriaco — una "questione cattolica", questione più ampia di quella che verrà chiamata "questione romana" nata a seguito della conquista militare di Roma nel 1870 da parte dell’esercito italiano. La "questione romana" non è stata risolta compiutamente dai Patti Lateranensi del 1929, che hanno sanato gli aspetti giuridici e politici, accettando con l’esistenza di un minuscolo ma reale Stato vaticano e regolamentando, con il Concordato, i rapporti nelle materie miste fra Stato italiano e Santa Sede. La "questione cattolica" è più ampia perché affonda nel corpo sociale italiano e si esplica non solo nella separazione fra Stato e Chiesa, ma anche nella scristianizzazione della sfera pubblica e nel ridimensionamento della presenza organizzata dei cattolici — che in buona parte rappresentano, almeno fino alla fine del XIX secolo, il "Paese reale"— che lo Stato, il Paese legale, attua nei decenni successivi all’unificazione e poi, ancor di più, dopo il 1870. Questa deriva non si è estinta dal punto di vista culturale né durante il fascismo, né nei regimi cosiddetti democratico-cristiani della Prima Repubblica, dove il cattolicesimo venne indubbiamente rispettato — anzi, la sfera religioso-clericale ottenne appoggi prima insperabili —, ma mai effettivamente ripreso come fondamento delle origini della nazione e quale componente vitale della vita pubblica.

Nacque allora anche una "questione meridionale", a causa della guerra civile che sconvolse il Mezzogiorno nel decennio 1860-1870 e che costò almeno diecimila morti, quasi tutti fra i contadini ribelli, e uno strascico di rancori etnico-classisti ancora oggi percepibile nelle viscere del Sud, per esempio nell’insofferenza popolare verso lo Stato, nella sensazione di persecuzione ed esclusione che affligge la popolazione e nel ricorso alla protezione delle organizzazioni criminali di tipo mafioso.

Si creò inoltre — e forse si tratta della questione meno nota o, comunque, affiorata più tardi — una "questione federalista", relativa alla forma dello Stato che i primi governi italiani vollero centralizzata, sulla base del modello francese, quando invece il "vestito" politico adatto al Paese-Italia avrebbe palesemente dovuto essere di carattere federale, nel rispetto delle profonde diversità delle popolazioni, delle loro varie storie e dei rispettivi governi pre-unitari. Una questione che l’istituzione delle regioni nel 1970 non ha affatto risolto, visto l’impronta verticistica, astratta — il ritaglio del territorio fatto nel 1861 andava ancora bene un secolo dopo? —, burocratica e pleonastica — perché mantenere le province? — che l’ha accompagnata.

Queste tre "questioni" hanno prodotto altrettante ferite che non si sono mai del tutto rimarginate nel corso della storia unitaria del Paese, si sono impresse nella memoria collettiva e nella tradizione familiare, anche se hanno assunto diverse espressioni nelle successive epoche storiche. E qui sta la radice della freddezza e dell’indifferenza agli appelli patriottistici delle autorità, che ignorano imperterrite questi spessi "rovesci di medaglia" e continuano a propagandare una mitologia oleografica e inverificata — anzi, verificandola, si vanifica ancor di più — e che puzza sempre più di falso ideologico.

2. La Resistenza

È significativo che le diverse famiglie ideologiche riaffiorate dopo il fascismo abbiano letto la Resistenza come "secondo Risorgimento".

Questo vale per il radicalismo liberale del Partito d’Azione — che nella Resistenza assume lo stesso nome dell’aggregazione che nel Risorgimento unì Casa Savoia a Camillo di Cavour (1810-1861) e a Giuseppe Garibaldi (1807-1885) —, che voleva portare a termine il processo risorgimentale attraverso una radicale riforma della cultura del Paese che lo allontanasse definitivamente dalle sue radici cattoliche e "controriformistiche", ritenute il principale ostacolo al suo processo di modernizzazione.

Vale anche per gli stessi comunisti, che faranno propria la lettura rivoluzionaria del Risorgimento proposta da Antonio Gramsci (1891-1937), e vedranno nella Resistenza l’occasione per fare quella rivoluzione sociale mai definitivamente attuatasi nel Paese.

Lo stesso fascismo, pure essendo un "fascio" appunto di diverse ideologie e correnti politiche, si considerò sempre, almeno attraverso il pensiero di Giovanni Gentile (1875-1944) e dei principali intellettuali nazionalisti, in virtù della "nazionalizzazione delle masse" da esso attuata, come erede, continuatore e ultimatore del Risorgimento.

Un discorso diverso, molto più complesso e difficile da riassumere, riguarda il mondo cattolico. Indubbiamente il partito della Democrazia Cristiana e i suoi principali intellettuali di riferimento non enfatizzarono mai le posizioni contrarie al Risorgimento assunte a suo tempo dalla Chiesa, in primis dal beato Papa Pio IX, poi dal movimento cattolico intransigente, che lo storico liberale Giovanni Spadolini (1925-1994) ha chiamato l’"opposizione cattolica", perché i democratici cristiani temevano che ciò lasciasse credere che il partito di maggioranza relativa, ormai stabilmente alla direzione dello Stato, avesse nostalgie temporalistiche e nutrisse la stessa diffidenza verso le istituzioni statali liberali che aveva sempre contraddistinto il movimento cattolico. I cattolici insomma erano entrati ai vertici dello Stato dopo il 1945 e non avevano nessuna intenzione di andarsene, anche se questo comportò sorvolare su una ferita nazionale profonda e importante.

Oltre a essere stata una guerra fra il fascismo e le forze che, dopo l’8 settembre 1943, diedero vita al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nell’Italia occupata dai tedeschi e governata dalla Repubblica Sociale Italiana, la Resistenza ha assunto anche il carattere di uno scontro ideologico-politico fra le diverse forze del CLN vittorioso, ognuna delle quali, peraltro, si riteneva degna erede e continuatrice del Risorgimento e dello Stato prefascista — con le riserve cui ho accennato riguardo al mondo cattolico — e voleva cogliere l’opportunità della sconfitta militare del Paese e delle drammatiche sofferenze che la guerra aveva inflitto alle popolazioni al fine di conquistarvi l’egemonia politica.

La lotta antifascista e antitedesca, lungi dall’essere quel moto corale di liberazione e quel generale anelito di democrazia che ne sostanziano la mitologizzazione, ha coinvolto solo una parte della nazione. Ne sono rimasti ovviamente esclusi i fascisti e chi prestava loro consenso, cioè molti ben pensanti, le centinaia di migliaia di sodati italiani rinchiusi nei campi di prigionia in India, in Sudafrica, in Inghilterra, negli Stati Uniti —molti di meno, per ovvi motivi quelli prigionieri in Russia —, gl’italiani che vivevano nella zona di occupazione alleata e, nel resto d’Italia, quella maggioranza "grigia" e attendista della popolazione, presente anche fra chi scelse di rifugiarsi sulle montagne per sfuggire alla deportazione in Germania o alla coscrizione fascista.

Ma, soprattutto, per come è stata condotta, ha prodotto gravi lacerazioni e lasciato ingenti strascichi nel dopoguerra.

Anzitutto una grande ferita si è formata a seguito della guerra scatenata dalle formazioni terroristiche e partigiane comuniste nel Nord del Paese, un conflitto feroce, che ha coinvolto italiani quartiere per quartiere, caseggiato per caseggiato — soprattutto gli alloggi popolari delle grandi città come Milano, Torino e Roma. Una guerra fatta di omicidi politici, di attentati terroristici — da via Rasella a Roma in poi — e rinfocolata dalle rappresaglie provocate. Una guerra che aggravava lo scontro bellico fra i due eserciti stranieri, quello a guida nazionalsocialista al nord e quello alleato che risaliva dalla Sicilia — ciascuno con la sua "appendice" di formazioni italiane — che si combattevano lungo la Penisola. Una guerra che macchiava lo sforzo reale di liberare il Paese che tanti militari e civili nelle formazioni partigiane disinteressatamente perseguivano. Una guerra civile che la parte vittoriosa ha continuato anche dopo la fine delle ostilità, proseguendo con omicidi e "pulizie di classe", umiliazioni e minacce per i vinti, fino almeno al 1948: i molti volumi di Giampaolo Pansa ne sono la più recente e sensazionale riscoperta.

La grave lacerazione non deve fare tuttavia dimenticare la parentela che esiste fra le diverse ideologie che hanno operato durante la guerra civile e che operativamente le assocerà all’interno del Cln e poi nell’Assemblea Costituente e nei governi nazionali e locali: l’espulsione dei comunisti per ragioni internazionali dal governo dello Stato nel 1947 sarà alla lunga "ricuperata" per iniziativa del partito democristiano e sarà del tutto dimenticata nei governi "di unità nazionale" della fine degli anni 1970.

La stessa ideologia del regime sconfitto, il fascismo, nasce dal socialismo, si unisce al nazionalismo dopo la Grande Guerra e soltanto durante il ventennio assume posizioni conservatrici — per interesse o per convinzione è difficile da valutare —, ostili al processo di ideologizzazione sviluppatosi nel Paese appunto a partire dal Risorgimento.

Forse questo — una rivalità fra "cugini" — può spiegare meglio la ferocia della guerra civile su un piano strettamente umano, anche perché coloro che cambiano partito devono assumere velocemente credibilità nella nuova formazione partitica che hanno sposato. Tuttavia anche questo merita una ulteriore riflessione: il via vai di socialisti diventati interventisti, nazionalisti e poi fascisti negli anni attorno alla Grande Guerra, così come gli intellettuali fascisti diventati, senza grandi traumi, antifascisti o di diverso orientamento ideologico o persino comunisti, durante e dopo la seconda guerra mondiale, dovrebbe favorire una riflessione sul fatto che tutte le diverse ideologie moderne che hanno attraversato la storia italiana facevano tutte riferimento al ceppo risorgimentale, sì che il passaggio da una all’altra non ha mai implicato radicali conversioni, cambiamenti nella vita e nel modo di pensare paragonabili alle grandi conversioni religiose, per esempio a quelle celebri di sant’Agostino e san Paolo, ma anche a quelle moderne, di quegli stessi anni, penso per esempio a Giovanni Papini (1881-1956).

Naturalmente questa considerazione non diminuisce il grande trauma della guerra civile ma, in un certo senso, lo rende ancora più incomprensibile, proprio per il fatto che gli attori di questa ferita inferta al corpo della nazione nella realtà, nel loro modo di pensare e di vivere, si distinguevano fra loro molto meno di quanto si creda.

Indicazioni bibliografiche

Su entrambi i temi la bibliografia è sterminata. Mi limito a segnalare i testi che hanno ispirato queste note e quelli che mi paiono utili a "introdursi" nel problema del rapporto fra Risorgimento e Resistenza.
Sulla "questione romana", cfr. Renato Cirelli, La Questione romana (1860-1929) in Voci per un Dizionario del Pensiero Forte (www.alleanzacattolica.org), e Idem, La Questione Romana. Il compimento dell’unificazione che ha diviso l’Italia, Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1997. Sulla "questione meridionale" cfr. Francesco Pappalardo, La questione meridionale in Voci per un Dizionario del Pensiero Forte (www.alleanzacattolica.org), e Idem, Giuseppe Garibaldi, Sugarco, Milano 2010. Una cronaca scritta da un contemporaneo e critica del Risorgimento è quella di Patrick Keyes O’ Clery, La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, trad. it., Ares, Milano 2000. Di F. Pappalardo sarà disponibile dal mese di giugno Il Risorgimento, Quaderni del Timone, Milano 2010, un'introduzione accessibile al tema con bibliografia. Molto utile, per le recensioni di opere sul Risorgimento e per altri articoli sul tema, il sito dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale Storia&Identità. Annali Italiani online (www.identitanazionale.it)
Uso il termine "senso comune" nel significato esposto nelle opere di mons. Antonio Livi, sintetizzate nella voce senso comune, redatta da Giovanni Cantoni in Voci per un Dizionario del Pensiero Forte (www.alleanzacattolica.org).
Sulla Resistenza una introduzione importante e accessibile anche al non specialista è l’opera di Renzo De Felice (1929-1996), Rosso e Nero, a cura di Pasquale Chessa, Baldini & Castoldi, Milano 1995. Più complessa ma di grande importanza per chi volesse approfondire è l’opera dello stesso De Felice, Mussolini l’alleato, vol. II, La guerra civile (1943-1945), Einaudi, Torino 1997.
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(1) Cfr. Giorgio Napolitano, Allocuzione rivolta al Ministro per lo Sviluppo Economico e ai componenti della Consulta per l’emissione di Carte Valori Postali e la Filatelia e della Commissione per lo Studio e l’Elaborazione delle Carte Valori Postali, in occasione della presentazione dei quattro francobolli celebrativi del 150° anniversario della Spedizione dei Mille, Roma, 15 aprile 2010.

martedì 3 novembre 2009

L'Europa e il crocifisso, la cristianofobia al potere


di Massimo Introvigne


Ci siamo. Da diverso tempo si accumulavano i segnali di un prossimo colpo delle istituzioni europee contro il cristianesimo e la Chiesa Cattolica. Qualche mese fa, il 4 marzo 2009, avevo avuto occasione di partecipare come esperto a Vienna a una conferenza dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) dove era stato lanciato l’allarme su una montante «cristianofobia», che in diversi Paesi non si limitava più alla propaganda ma si esprimeva in leggi e sentenze contro la libertà religiosa e di predicazione dei cristiani e contro i loro simboli. L’attacco anticristiano si era finora svolto in modo prevalentemente indiretto, attraverso la proclamazione di presunti «nuovi diritti»: anzitutto, quello degli omosessuali a non essere oggetto di giudizi critici o tali da mettere in dubbio che le unioni fra persone dello stesso sesso debbano godere degli stessi riconoscimenti di quelle fra un uomo e una donna. Tutelando gli omosessuali non solo – il che sarebbe ovvio e condivisibile – da violenze fisiche, ma da qualunque giudizio ritenuto discriminante ed etichettato come «omofobia», le istituzioni europee violavano fatalmente la libertà di predicazione di tutte quelle comunità religiose, Chiesa Cattolica in testa, le quali hanno come parte normale del loro insegnamento morale la tesi secondo cui la pratica omosessuale è un disordine oggettivo e uno Stato bene ordinato non può mettere sullo stesso piano le unioni omosessuali e il matrimonio eterosessuale. La sentenza «Lautsi c. Italie» del 3 novembre 2009 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo segna il passaggio della cristianofobia dalla fase indiretta a una diretta. Non ci si limita più a colpire il cristianesimo attraverso l’invenzione di «nuovi diritti» che, proclamando il loro normale insegnamento morale, le Chiese e comunità cristiane non potranno non violare, ma si attacca la fede cristiana al suo cuore, la croce. I giudici di Strasburgo – dando ragione a una cittadina italiana di origine finlandese – hanno affermato che l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche italiane viola i diritti dei due figli, di undici e tredici anni, della signora Lautsi, li «perturba emozionalmente» e nega la natura stessa della scuola pubblica che dovrebbe «inculcare agli allievi un pensiero critico». Ove tornasse in Finlandia, la signora Lautsi dovrebbe chiedere al suo Paese natale di cambiare la bandiera nazionale, dove come è noto figura una croce, con quale perturbazione emozionale dei suoi figlioli è facile immaginare. Basta questa considerazione paradossale per capire come, per qualunque persona di buon senso, la croce a scuola o sulla bandiera non è uno strumento di proselitismo religioso ma il simbolo di una storia plurisecolare che, piaccia o no, non avrebbe alcun senso senza il cristianesimo. In Italia la signora Lautsi intascherà cinquemila euro dai contribuenti – un piccolo omaggio della Corte di Strasburgo – e avrà diritto di far togliere i crocefissi dalle aule dove studiano i figli. Certo, ci sarà l’appello, e giustamente il nostro governo rifiuterà di applicare questa sentenza ridicola e folle. Ma le «toghe rosse» italiane si sentiranno incoraggiate dai colleghi europei. Che non sono tutti «stranieri» dal momento che uno dei firmatari della sentenza è il giudice italiano a Strasburgo, il dottor Vladimiro Zagrebelsky, campione – insieme al fratello minore Gustavo – del laicismo giuridico nostrano.

domenica 13 settembre 2009

La mitica stampa estera difende il killer Battisti


di Massimo Introvigne


Vi preoccupate di che cosa pensa dell’Italia la mitica “stampa estera”? Vi fate impressionare dagli attacchi dei giornali di Parigi? Soffrite di una malattia, ma è arrivata la cura. Basta leggersi quello che questi giornali scrivono a proposito del caso Battisti. Le Nouvel Observateur, querelato da Silvio Berlusconi per avere battuto perfino il record di offese e insulti di Repubblica, sentenzia che “uno scrittore – Battisti, infatti, scrive romanzi gialli – non è mai un latitante come gli altri” e considera la richiesta italiana di estradizione “arrogante”. E su molta stampa francese Battisti continua a essere presentato come un poveruomo perseguitato dalla “destra” e dal berlusconismo, con errori grossolani su tutta la sua vicenda.
La storia è tanto squallida quanto nota. Ladro e rapinatore convertito in carcere al terrorismo comunista, Battisti commette personalmente due omicidi ed è complice di altri due fra il 1978 e il 1979. Arrestato nel 1979, è liberato nel 1981 dai suoi compagni che assaltano il carcere di Frosinone. Scappa in Messico ed è poi accolto da una Francia molto tollerante verso i “militanti comunisti” italiani. Nel 2000 (attenzione alla data) il ministero della Giustizia italiano ne reclama l'estradizione sulla base delle nuove norme europee. La Francia non può fare altro che concederla, sia pure con ritardo, nel 2004. Ne nasce una mobilitazione nazionale contro il rischio che uno “scrittore francese” sia consegnato alla “vendetta di Berlusconi”, tuttora in corso. Dopo avere assicurato in televisione che non sarebbe scappato, nel 2004 Battisti fugge in Brasile per evitare l'estradizione. È probabile che la fuga sia stata favorita dai servizi francesi, per non esporre il governo alle critiche della stampa e dei gauchiste locali. Ed è un segreto di Pulcinella che sono pressioni di ambienti francesi a fare ostacolo all’estradizione dal Brasile in Italia.
Battisti è stato condannato in Italia in tre gradi di giudizio, fino alla Cassazione, in seguito a inchieste giudiziarie condotte, tra l'altro, da Luciano Violante e Giancarlo Caselli. La richiesta di estradizione è stata firmata nel 2000 dal Guardasigilli di allora, che si chiamava Piero Fassino. Sono questi i personaggi che – scrivono a Parigi senza paura di cadere nel ridicolo – si sarebbero fatti strumento della terribile “vendetta di Berlusconi”.Mentre pretendono di darci lezioni di diritto e di legalità, i giornali francesi dovrebbero semplicemente vergognarsi della protezione che offrono a un volgare assassino, anche per rispetto ai morti ammazzati da Battisti e alle loro famiglie. Infine, una domanda. Gli appelli francesi per Battisti risultano sottoscritti (oltre che dal solito Vauro, quello che fa i disegnini per Santoro in televisione) da un buon numero di esponenti di Rifondazione Comunista, Verdi e Comunisti Italiani. Il PD, che pensa di allearsi con questi partiti alle prossime elezioni regionali, ha qualche cosa da dire al riguardo?


12 settembre 2009 - Libero

giovedì 2 aprile 2009

L'Imperatore d'Austria che Papa Wojtyla tanto ammirava


di Renzo Allegri


Il primo di aprile di 87 anni fa moriva Carlo d’Asburgo Lorena, ultimo Imperatore d’Austria proclamato beato nell’ottobre del 2004. Alla morte aveva soltanto 34 anni ed era in esilio a Madeira, cacciato dal trono dalle nuove forze politiche che si erano rafforzate nel Paese dopo la prima guerra mondiale e che si opponevano a Carlo perché cattolico osservante e rappresentante di quell’antico Sacro romano impero che difendeva la Chiesa.
Il 2 aprile, invece, ricorre il quarto anniversario della morte di un altro grande, grandissimo uomo: Carlo Wojtyla e cioè Papa Giovanni Paolo II.
In due giorni si ricordano gli anniversari di un Imperatore già beato e di un Papa, che dovrebbe essere proclamato beato a breve. Austriaco il primo, polacco il secondo. Due eccezionali protagonisti della storia del secolo Ventesimo. Due persone che non si sono mai conosciute su questa terra, ma che erano legate dalla fede cristiana, dalla pratica eroica delle virtù evangeliche nella vita quotidiana e anche da un sottile e misterioso dettaglio affettivo: avevano avuto al battesimo lo stesso nome, Carlo.
In genere, nei libri biografici di Papa Giovanni Paolo II non si trova alcun cenno a questo dettaglio. Dai registri parrocchiali si sa che venne battezzato con due nomi: Karol Jozef (Carlo Giuseppe). Tutti i biografi hanno sempre scritto che il primo nome ricordava il padre del futuro Papa, che si chiamava appunto Karol (Carlo), mentre il secondo, Jozef, gli era stato dato in omaggio al generale Pilsudski, l’eroe fondatore della Repubblica Polacca.
Ma recentemente su questo argomento ho raccolto una testimonianza nuova e inedita. Uno dei tre figli viventi dell’Imperatore Carlo I Suoi altezza imperiale reale Arciduca Rodolfo, mi ha raccontato che lo stesso Giovanni Paolo II gli ha rivelato perché al battesimo fu chiamato Carlo. "Fu durante un’udienza privata che Papa Wojtyla concesse alla mia famiglia", mi ha raccontato l’Arciduca Rodolfo. "C’erano i miei figli, con le loro famiglie e c’era anche mia madre, l’Imperatrice Zita. Il Papa ci accolse con grande cordialità. Parlò con grande entusiasmo di mio padre, l’Imperatore Carlo. E rivolgendosi a mia madre, la chiamava “la mia Imperatrice” e ogni volta si inchinava verso di lei. Ad un certo momento disse: “Sapete perché al battesimo io fui chiamato Carlo? Proprio perché mio padre aveva una grande ammirazione per l’Imperatore Carlo I, di cui è stato un soldato".
Testimonianza molto significativa che spiega la costante ammirazione manifestata sempre da Giovanni Paolo II per l’Imperatore austriaco. Aveva imparato a conoscerlo dal proprio genitore, Karol Wojtyla senior, che era stato sottufficiale del 56° reggimento di fanteria dell’esercito austroungarico, quindi soldato dell’Imperatore Carlo I°. Fin da allora, Karol Wojtyla senior aveva intuito la grandezza morale e spirituale del suo Imperatore e se ne era entusiasmato al punto da dare al proprio figlio quel nome. E, mano a mano che il figlio cresceva, gli trasmetteva la vera storia di quell’Imperatore, confutando le dicerie e le calunnie diffuse da coloro che lo avevano cacciato dal trono.
Così, anche il futuro Papa imparò ad apprezzare il giovane e sfortunato Imperatore austriaco, vedendo in lui una rara e fulgida figura di sovrano giusto e leale, generoso e amorevole, pronto a qualsiasi sacrificio personale per il bene del popolo. Per questo, da Papa, ne sostenne apertamente e con entusiasmo il processo di beatificazione e quando potè celebrare la solenne cerimonia lo fece con gioia, indicando il sovrano austriaco come modello per tutti gli uomini politici.
Quando, nel 2004, venne diffusa la notizia che l’Imperatore Carlo I° d’Austria sarebbe stato beatificato, molti, anche in ambito cattolico, si meravigliarono. Trovavano strano che un Imperatore, cioè un uomo appartenente al mondo dei nobili, dei ricchi, dei potenti della terra potesse diventare santo.
I giornali ricordarono figure del passato: Re Stefano d’Ungheria, Sant’Agnese di Praga, Sant’Elisabetta d’Ungheria, Sant’Enrico II Imperatore, Santa Brigida di Svezia, San Luigi IX re di Francia, San Ferdinando re del Portogallo eccetera, sottolineando, però, che si trattava di “regnanti” vissuti in tempi molto lontani, quando i processi di beatificazione non erano rigorosi come lo sono ora, mentre Carlo I d’Austria era morto nel 1922, all’inizio del secolo scorso, meno di cento anni prima. Era un uomo giovane, intelligente, colto, bello, marito di una principessa bellissima, Zita dei Borboni Parma, dalla quale aveva avuto otto figli. Per la mentalità moderna, sembrava impossibile che una persona del genere avesse esercitato le virtù evangeliche in maniera eroica al punto da meritare la gloria degli altari.
Su di lui inoltre circolavano molti pregiudizi. Gli storici laici lo avevano sempre definito “un debole e un incapace”. Salito al trono nel 1916, quando era in pieno svolgimento la Prima guerra mondiale, lo incolpavano di non essere stato capace di vincere la guerra. Per questo, dopo il conflitto era stato esiliato dal suo Paese. Ma, poi, alla luce di una grande mole di documenti emersi al processo di beatificazione e di altri studi pubblicati dopo quel processo, si è scoperto invece che l’Imperatore Carlo I fu un politico lungimirante, che voleva il “bene vero” dei suoi sudditi, che aveva grandi idee d’avanguardia per l’Europa.
"Sì, il processo di beatificazione ha molto contribuito a cambiare il giudizio che gli storici avevano sempre dato su mio nonno", dice l’arciduchessa Catharina d’Austria, figlia dell’arciduca Rodolfo. "Finalmente, molti studiosi hanno cominciato a mettere da parte i pregiudizi derivanti dal fatto che mio padre era un cattolico praticante, e hanno iniziato a valutarne obbiettivamente le idee politiche, constatando che erano geniali".
Trentasei anni, laureata in Giurisprudenza e specializzata in Scienze politiche, Catharina d’Austria è autrice di vari saggi storici sui personaggi della propria famiglia e, naturalmente, anche lei grande appassionata della storia del suo illustre nonno
"Oggi per fortuna, molti riconoscono che mio nonno fu un illuminato pacifista, uno dei primi convinti sostenitori di una Grande Europa Unita, basata non sui conflitti armati ma sulla cooperazione, sul rispetto delle minoranze, delle autonomie, delle culture e delle singole persone. Se fosse stato ascoltato, l’Europa unita sarebbe nata molto prima, e certamente non ci sarebbero stati gli orrori della terribile Seconda guerra mondiale".
L’arciduchessa Catharina d’Austria, che ha sposato un italiano, il conte Massimiliano Secco d’Aragona, cittadino bresciano, è promotrice di varie iniziative a favore della conoscenza vera dell’Imperatore Carlo I d’Austria. A Brescia, dove spesso vive con il marito e i due figli, Costantino, 8 anni, e Nicolò, 6, ha patrocinato un centro culturale e religioso che ha lo scopo di far conoscere ed apprezzare la vita, l’opera e la santità del Beato Imperatore Carlo d’Austria. Questo centro ha sede nella parrocchia di San Gottardo, dove si conservano alcune reliquie dell’Imperatore. Al movimento hanno aderito importanti personalità del mondo cattolico, uomini politici, professori universitari, vescovi e prelati illustri. In quel centro, gestito dal parroco monsignor Arnaldo Morandi, si tengono convegni, conferenze, dibattiti per approfondire la conoscenza della politica cristiana di Carlo I Imperatore.
"Io sono la più piccola dei nipoti dell’Imperatore Carlo I", dice l’arciduchessa Catharina. "Ho imparato a conoscerlo soprattutto attraverso i racconti di mia nonna, l’Imperatrice Zita dei Borboni Parma. Passava molto tempo nella nostra casa a Bruxelles e io, essendo la più piccola, ero un po’ la sua coccola. Era religiosissima. Fu lei a insegnarmi il catechismo e a prepararmi per la Prima Comunione. Parlava sempre del nonno. Ne parlava con tale trasporto che era impossibile non rimanere affascinati. E, dai suoi racconti, mi sono fatta l’idea che il nonno non fu un santo solo da adulto, da Imperatore, ma da sempre, da ragazzo, da giovane, da fidanzato. Un grande santo".

A Roma, intanto, l’avvocato Andrea Ambrosi, postulatore della causa di beatificazione dell’Imperatore Carlo I d’Austria, sta lavorando per l’ultima tappa del processo: la “canonizzazione”, cioè la proclamazione della santità. Per raggiungere questo traguardo, la Chiesa richiede l’approvazione di un nuovo miracolo, avvenuto dopo che il soggetto era stato proclamato beato. E questo miracolo per l’Imperatore d’Austria Carlo I c’è già. Riguarda una signora americana, Tamara Staggs, di Orlando, in Florida. Nel 2002 fu colpita da tumore maligno alla mammella. Fu operata e sottoposta a chemioterapia, ma nel 2004 il male si ripresentò più grave, con metastasi anche al fegato. Medicine e terapie risultarono inutili. La situazione precipitava. I medici dissero che all’ammalata restavano pochi mesi di vita.
I coniugi Melancon, amici della signora Tamara, ma amici anche della famiglia del beato Carlo, dalla quale avevano ricevuto in dono una reliquia, cominciarono a pregare l’Imperatore per la guarigione della signora Tamara. La cosa sembrava un po’ “difficile” perchè la signora Tamara non era di religione cattolica, ma riuscirono egualmente a coinvolgerla nelle preghiere e, all’improvviso, arrivò la guarigione.
Il 19 gennaio 2005, una TAC evidenziava, in modo del tutto inatteso, la completa scomparsa delle metastasi epatiche. Successivi controlli, ripetuti periodicamente – l’ultimo nell’ottobre 2008 – hanno dimostrato che del male non c’è più alcuna traccia.
A Orlando è già stato fatto il processo diocesano per questa guarigione con le deposizioni giurate di tutti i testimoni e dei medici. L’incartamento è già a Roma. "Sono trascorsi tre anni dalla guarigione, quindi va ritenuta inconfutabile", dice il postulatore avvocato Ambrosi. "Ho già fatto esaminare il caso anche a un famoso oncologo dell’Università 'La Sapienza' di Roma, che lo ha ritenuto validissimo. Però, per avere la certezza assoluta, ho deciso di aspettare fino al 2010, cioè cinque anni dopo la guarigione. E sono certo che questo miracolo farà diventare presto Santo l’Imperatore d’Austria".


Zenit - 1 aprile 2009

mercoledì 11 marzo 2009

La povertà dei poveri è "colpa" dei ricchi?


di Padre Piero Gheddo


La cause radicali della povertà non sono né la colonizzazione, né le multinazionali né l’egoismo dei Paesi ricchi.
I ricchi del mondo hanno tante responsabilità e colpe, ma non quelle di essere stati la radice della povertà dei popoli poveri.
Mi fa pena quando leggo su libri e riviste non “popoli poveri” ma “popoli impoveriti”. E spiegano che, prima dell’incontro con la colonizzazione occidentale, ad esempio, i popoli africani o gli indios amazzonici, vivevano una vita naturale, felice, pacifica, solidale.
E’ la visione dell’Illuminismo, che non ammetteva il peccato originale: l’uomo nasce buono, la società lo rende cattivo. Ma è una visione ideologica del tutto contraria alla realtà storica.
Basta leggere le biografie dei primi missionari che sono venuti a contatto con popoli anche prima dell’intervento coloniale. Ad esempio i missionari del Pime sono andati nella Birmania orientale nel 1868, quando la colonizzazione inglese, in quelle regioni abitate da popolazioni tribali che vivevano all’età della pietra (non conoscevano il ferro), è iniziata verso la fine del secolo XIX.
Ebbene, i missionari scrivevano che le tribù erano continuamente in guerra fra di loro e descrivono la loro vita grama dicendo che era una vita disumana, poco al di sopra di quella degli animali. Altro che “impoveriti”! Anzi i tribali della Birmania si sono evoluti proprio con l’azione dei missionari, che hanno portato la pace, insegnato a fare e coltivare le risaie (prima erano nomadi), aperto le strade e le scuole, portato la medicina moderna, studiato le loro lingue e fatto vocabolari e raccolte di loro proverbi e racconti e via dicendo.
I “no global” avevano coniato, nel 2001 al G8 di Genova, uno slogan efficace “noi siamo ricchi perché loro sono poveri e loro sono poveri perché noi siamo ricchi”. Dico sempre che non si aiutano i poveri raccontando bugie. Come l’altro slogan: “Il 10% della popolazione mondiale consuma il 90% delle risorse ed il 90% degli uomini consumano solo il 10% delle risorse disponibili”. Io dico che bisogna correggere così: “il 10% degli uomini producono e consumano il 90% delle risorse, il 90% degli uomini producono e consumano il 10% delle risorse”.
Il problema in radice è che prima bisogna produrre e poi consumare: si consuma se si produce e nei Paesi poveri non si produce abbastanza per mantenere il ritmo di crescita della popolazione.
L’Africa è passata da 300 milioni di abitanti nel 1960 a più di 800 di oggi, ma l’agricoltura di base è ancora in buona parte ferma all’epoca coloniale. Alcuni “catastrofisti” dicono che ci sono troppi uomini per poter vincere la fame. Non è vero, il Giappone che ha 342 abitanti per chilometro quadrato (l’Italia 194), una delle densità più alte del mondo e in un Paese tutto montagnoso (è coltivabile solo il 19% del territorio) e dal clima infelice, è autosufficiente nel cibo di base che consuma, cioè il riso.
La fame non deriva dai troppi uomini e donne, ma dal fatto che non sono istruiti, educati a produrre di più, oltre al livello della pura sussistenza.
Ma questo in Occidente non si vuol sentire perché chiama in causa la nostra vera responsabilità, che non è di non aiutare maggiormente e finanziariamente i Paesi poveri e di non pagare con giustizia le loro materie prime (anche questo, ma non anzitutto questo), bensì di non contribuire ad educarli per diventare autosufficienti, prima di tutto nella produzione di cibo e poi di tutto il resto.
Il distacco fra ricchi e poveri nel mondo non è anzitutto un fatto economico, ma culturale-politico. Mentre in Europa, dopo secoli di lento cammino verso l’industria e l’agricoltura moderna, siamo giunti ad avere le tecniche, le capacità, la mentalità imprenditoriale e lavorativa (oltre alla democrazia e al libero mercato), molti popoli del Sud del mondo sono passati, alla fine dell’Ottocento o inizio del Novecento, dalla preistoria (cioè assenza di lingue scritte) alla modernità in un secolo, con due guerre mondiali in mezzo!
In situazioni come questa è superfluo dire che loro hanno grandi valori umani, che sono giovani e intelligenti e simpatici, pieni di buona volontà. Queste cose le so benissimo anch’io, ma il balzo culturale dalla preistoria al computer e all’aereo si può assorbire da parte di alcuni in senso tecnico, non in senso culturale.
Le masse popolari usano bene il telefonino e la televisione, ma la testa, le abitudini, i costumi di vita, la mentalità di fondo sono rimasti più o meno al tempo passato. Le fedi religiose e le culture non si cambiano rapidamente, ci vuole tempo. Questo è il ritornello che più sento ripetere dai missionari che vivono una vita con i popoli poveri, ma che in Occidente ancora non si capisce o non si vuol ammettere.
Nel dicembre 2007 sono stato in Camerun, uno dei Paesi modello dell’Africa a sud del Sahara: esteso una volta e mezzo l’Italia, con 18 milioni di abitanti, politicamente stabile, senza guerre o guerre intestine, con una passabile forma di democrazia e libertà di stampa. Crescita economica annuale dal 2 al3% del Pil. Reddito medio pro-capite: 800 dollari l’anno, quando in molti Paesi africani è dai 100 ai 300 dollari (l’Italia è poco sotto i 30.000 dollari). Debito estero quasi inesistente, poche decine di milioni.
Tutto bene, ma il fatto è che il Camerun produce poco o nulla in campo industriale. Non ha una vera industria, ma solo cementifici, produzione tessile e dello zucchero, di birra e di sigarette, sgranatura del cotone, poco altro. Importa quasi tutti i beni moderni, comprese lampadine e frigoriferi, esportando ricchezze naturali (petrolio, minerali vari, legno) e prodotti agricoli. E una crescita economica senza industria non è possibile.
Il secondo cancro del Camerun è la corruzione a livello politico e amministrativo, statale. Nella lista dei Paesi più corrotti del mondo stilata dall’Onu, il Camerun è sempre nei primi posti; nel 2007 era addirittura il primo. Non è colpa specifica di questo o quel capo di Stato o amministratore, è un costume che deriva dalla mentalità: quando uno ha il potere deve pensare anzitutto alla sua etnia, tribù, villaggio, famiglia. E’ un cancro diffusissimo in tutta l’Africa – e non solo in essa, naturalmente – che laggiù frena moltissimo lo sviluppo, perchè i sussidi e i doni che si ricevono dall’Onu o da altri Stati finiscono quasi tutti nelle tasche appunto di chi detiene il potere.
E, ripeto, questo vale per i governanti ad alto livello e per gli amministratori, i militari, eccetera, ma anche per chi ha qualsiasi potere sugli altri. Ci sono eccezioni certo, ma il malcostume di cui tutti parlano è questo. Queste sono le vere radici del sottosviluppo.
Lo sviluppo è un fatto non solo tecnico ed economico, ma parte anzitutto dalla cultura, dall’istruzione: è opera dell’uomo e non dei soldi, parte dall’uomo e non dalle macchine, nasce in un popolo attraverso l’educazione, la quale però è un processo lungo, paziente, che non si fa con interventi d’emergenza, ma vivendo assieme ad un popolo. Noi occidentali facciamo pochissimo per l’educazione dei popoli poveri, anche perché non si parla mai di valori culturali e religiosi che portano allo sviluppo: è un tema ignorato dai mass media e dagli ‘esperti’ occidentali, che privilegiano gli aiuti economici e tecnici.


5 marzo 2009 - www.zenit.org