di Marco Invernizzi
Parto da un dato di fatto che per certi versi è all’origine del problema dell’identità degl’italiani nel nostro tempo, a centocinquant’anni dalla formazione dello Stato unitario.
Quando parliamo di Risorgimento e di Resistenza indubbiamente ci troviamo di fronte ai due eventi storici che vengono evocati dalle istituzioni dello Stato — il 15 aprile 2010 Giorgio Napolitano ha parlato dell’unità del 1861 come "una grande stella polare" (1), che guidato il cambiamento nel Paese — e dalla maggior parte degli storici accademici come punti di riferimento imprescindibili per determinare il sentimento di appartenenza nazionale.
Ma è altrettanto vero che questi due "pilastri", nonostante le massicce dosi di "educazione civica" impartita obbligatoriamente in tutte le scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e private, non sono considerati del tutto tali dalla comunità nazionale. Ciò si verifica naturalmente in grado diverso a misura dell’istruzione, dell’ideologizzazione e del vissuto di ciascuno, ma in misura sufficiente per poter affermare che entrambi gli eventi non riescono a svolgere il ruolo esemplare che è stato loro assegnato.
Il motivo di questa insufficiente adesione credo sia da ricercare nel carattere mitologico, ergo ideologico, che accomuna i due momenti della storia italiana, cioè nella loro sostanziale astrattezza e non rispondenza ai sentimenti e — perché no? — agl’interessi concreti della maggioranza dei cittadini. Infatti sia il Risorgimento sia la Resistenza hanno contribuito in maniera cospicua al venir meno di una concezione della vita condivisa perché fondata su principi e su esperienze universali — quello che alcuni studiosi hanno sintetizzato con il termine "senso comune" — diffondendo, spesso con l’uso della violenza, visioni del mondo e della società lontane e mutuate da filosofie sociali utopistiche.
Provo a esaminare le due questioni, separandole anche per cercare di mostrare le similitudini e le differenze.
1. Il Risorgimento
Il Risorgimento aveva alle spalle, in senso cronologico, e davanti a sé, almeno come punto di riferimento ideale, la madre di tutte le rivoluzioni, almeno nella modernità, la Rivoluzione francese. Non tutti gli studiosi concordano nel fare in qualche modo dipendere il Risorgimento dalla Rivoluzione francese e, soprattutto i sostenitori di un’interpretazione moderata, nazionalista e sabauda del processo di unificazione politica dell’Italia, tendono a privilegiare le radici e i protagonisti autoctoni del moto risorgimentale. Queste radici indubbiamente vi furono e possono essere racchiuse in uno dei termini con cui si definisce, a torto, il Risorgimento, ossia l’unità. L’unificazione della Penisola, prima divisa in diversi Stati regionali, alcuni plurisecolari, in un unico organismo politico fu certamente uno dei due motivi che hanno dominato la nascita dell’Italia moderna ed è una caratteristica assente nella Rivoluzione del 1789 in Francia.
Ma l’unificazione sarebbe potuta avvenire in modi diversi, per esempio secondo lo schema federalistico del movimento neo-guelfo, che non voleva contrapporsi alla Chiesa, oppure, al contrario, seguendo la prospettiva repubblicana, sostenuta dalle forze che si ispiravano a Giuseppe Mazzini e a Carlo Cattaneo. Invece venne attuata in obbedienza ai teoremi della prospettiva ispirata a una forma temperata di liberalismo e a un forte nazionalismo, che si intrecciavano e si mescolavano agl’interessi geo-politici del Regno di Sardegna. Che tale prospettiva ideologica avesse un debito evidente nei confronti della Rivoluzione francese e in particolare del ventennio della dominazione napoleonica in Italia (1796-1815), mi sembra evidente.
L’unificazione, fatto in sé positivo, venne attuata in maniera inseparabile da un progetto di rinnovamento degli assetti culturali e politici, che ebbe modalità ed effetti dirompenti nei confronti di un passato plurisecolare comune dei popoli italiani.
Il Ri-sorgimento dell’Italia, quello che avvenne nella realtà, si tradusse invece in emarginazione completa delle classi politiche preunitarie, in mortificazione delle antiche capitali, in esproprio totale delle risorse materiali e immateriali — pensiamo ai codici, agli statuti delle autonomie, alle opere di carità — dei vari regni e principati soppressi, in dispersione totale dei patrimoni di esperienza accumulati in secoli di unità culturale, in eversione radicale dei cicli economico-sociali — incluse le migrazioni — regionali e interregionali. A vantaggio di un forte accentramento politico e di una pesante uniformità amministrativa, attuando una secolarizzazione esasperata e combattendo con l’esercito ogni conato di resistenza.
Il che portava inevitabilmente a uno scontro diretto con la Chiesa cattolica, non soltanto a causa del potere temporale che il Pontefice esercitava su una parte del territorio italiano, ma anche e soprattutto perché l’ideologia risorgimentale prevedeva che il Paese attuasse uno stacco più o meno radicale dalle sue radici cristiane.
Si aprì così una serie di questioni, meglio, di ferite, che la comunità nazionale non ha ancora risolto centocinquant’anni dopo la sua unificazione politica.
Nacque allora — certamente almeno a partire dal 1848, dopo il rifiuto di Papa Pio IX (1846-1878) di muovere guerra a fianco dei sardi contro l’Impero austriaco — una "questione cattolica", questione più ampia di quella che verrà chiamata "questione romana" nata a seguito della conquista militare di Roma nel 1870 da parte dell’esercito italiano. La "questione romana" non è stata risolta compiutamente dai Patti Lateranensi del 1929, che hanno sanato gli aspetti giuridici e politici, accettando con l’esistenza di un minuscolo ma reale Stato vaticano e regolamentando, con il Concordato, i rapporti nelle materie miste fra Stato italiano e Santa Sede. La "questione cattolica" è più ampia perché affonda nel corpo sociale italiano e si esplica non solo nella separazione fra Stato e Chiesa, ma anche nella scristianizzazione della sfera pubblica e nel ridimensionamento della presenza organizzata dei cattolici — che in buona parte rappresentano, almeno fino alla fine del XIX secolo, il "Paese reale"— che lo Stato, il Paese legale, attua nei decenni successivi all’unificazione e poi, ancor di più, dopo il 1870. Questa deriva non si è estinta dal punto di vista culturale né durante il fascismo, né nei regimi cosiddetti democratico-cristiani della Prima Repubblica, dove il cattolicesimo venne indubbiamente rispettato — anzi, la sfera religioso-clericale ottenne appoggi prima insperabili —, ma mai effettivamente ripreso come fondamento delle origini della nazione e quale componente vitale della vita pubblica.
Nacque allora anche una "questione meridionale", a causa della guerra civile che sconvolse il Mezzogiorno nel decennio 1860-1870 e che costò almeno diecimila morti, quasi tutti fra i contadini ribelli, e uno strascico di rancori etnico-classisti ancora oggi percepibile nelle viscere del Sud, per esempio nell’insofferenza popolare verso lo Stato, nella sensazione di persecuzione ed esclusione che affligge la popolazione e nel ricorso alla protezione delle organizzazioni criminali di tipo mafioso.
Si creò inoltre — e forse si tratta della questione meno nota o, comunque, affiorata più tardi — una "questione federalista", relativa alla forma dello Stato che i primi governi italiani vollero centralizzata, sulla base del modello francese, quando invece il "vestito" politico adatto al Paese-Italia avrebbe palesemente dovuto essere di carattere federale, nel rispetto delle profonde diversità delle popolazioni, delle loro varie storie e dei rispettivi governi pre-unitari. Una questione che l’istituzione delle regioni nel 1970 non ha affatto risolto, visto l’impronta verticistica, astratta — il ritaglio del territorio fatto nel 1861 andava ancora bene un secolo dopo? —, burocratica e pleonastica — perché mantenere le province? — che l’ha accompagnata.
Queste tre "questioni" hanno prodotto altrettante ferite che non si sono mai del tutto rimarginate nel corso della storia unitaria del Paese, si sono impresse nella memoria collettiva e nella tradizione familiare, anche se hanno assunto diverse espressioni nelle successive epoche storiche. E qui sta la radice della freddezza e dell’indifferenza agli appelli patriottistici delle autorità, che ignorano imperterrite questi spessi "rovesci di medaglia" e continuano a propagandare una mitologia oleografica e inverificata — anzi, verificandola, si vanifica ancor di più — e che puzza sempre più di falso ideologico.
2. La Resistenza
È significativo che le diverse famiglie ideologiche riaffiorate dopo il fascismo abbiano letto la Resistenza come "secondo Risorgimento".
Questo vale per il radicalismo liberale del Partito d’Azione — che nella Resistenza assume lo stesso nome dell’aggregazione che nel Risorgimento unì Casa Savoia a Camillo di Cavour (1810-1861) e a Giuseppe Garibaldi (1807-1885) —, che voleva portare a termine il processo risorgimentale attraverso una radicale riforma della cultura del Paese che lo allontanasse definitivamente dalle sue radici cattoliche e "controriformistiche", ritenute il principale ostacolo al suo processo di modernizzazione.
Vale anche per gli stessi comunisti, che faranno propria la lettura rivoluzionaria del Risorgimento proposta da Antonio Gramsci (1891-1937), e vedranno nella Resistenza l’occasione per fare quella rivoluzione sociale mai definitivamente attuatasi nel Paese.
Lo stesso fascismo, pure essendo un "fascio" appunto di diverse ideologie e correnti politiche, si considerò sempre, almeno attraverso il pensiero di Giovanni Gentile (1875-1944) e dei principali intellettuali nazionalisti, in virtù della "nazionalizzazione delle masse" da esso attuata, come erede, continuatore e ultimatore del Risorgimento.
Un discorso diverso, molto più complesso e difficile da riassumere, riguarda il mondo cattolico. Indubbiamente il partito della Democrazia Cristiana e i suoi principali intellettuali di riferimento non enfatizzarono mai le posizioni contrarie al Risorgimento assunte a suo tempo dalla Chiesa, in primis dal beato Papa Pio IX, poi dal movimento cattolico intransigente, che lo storico liberale Giovanni Spadolini (1925-1994) ha chiamato l’"opposizione cattolica", perché i democratici cristiani temevano che ciò lasciasse credere che il partito di maggioranza relativa, ormai stabilmente alla direzione dello Stato, avesse nostalgie temporalistiche e nutrisse la stessa diffidenza verso le istituzioni statali liberali che aveva sempre contraddistinto il movimento cattolico. I cattolici insomma erano entrati ai vertici dello Stato dopo il 1945 e non avevano nessuna intenzione di andarsene, anche se questo comportò sorvolare su una ferita nazionale profonda e importante.
Oltre a essere stata una guerra fra il fascismo e le forze che, dopo l’8 settembre 1943, diedero vita al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nell’Italia occupata dai tedeschi e governata dalla Repubblica Sociale Italiana, la Resistenza ha assunto anche il carattere di uno scontro ideologico-politico fra le diverse forze del CLN vittorioso, ognuna delle quali, peraltro, si riteneva degna erede e continuatrice del Risorgimento e dello Stato prefascista — con le riserve cui ho accennato riguardo al mondo cattolico — e voleva cogliere l’opportunità della sconfitta militare del Paese e delle drammatiche sofferenze che la guerra aveva inflitto alle popolazioni al fine di conquistarvi l’egemonia politica.
La lotta antifascista e antitedesca, lungi dall’essere quel moto corale di liberazione e quel generale anelito di democrazia che ne sostanziano la mitologizzazione, ha coinvolto solo una parte della nazione. Ne sono rimasti ovviamente esclusi i fascisti e chi prestava loro consenso, cioè molti ben pensanti, le centinaia di migliaia di sodati italiani rinchiusi nei campi di prigionia in India, in Sudafrica, in Inghilterra, negli Stati Uniti —molti di meno, per ovvi motivi quelli prigionieri in Russia —, gl’italiani che vivevano nella zona di occupazione alleata e, nel resto d’Italia, quella maggioranza "grigia" e attendista della popolazione, presente anche fra chi scelse di rifugiarsi sulle montagne per sfuggire alla deportazione in Germania o alla coscrizione fascista.
Ma, soprattutto, per come è stata condotta, ha prodotto gravi lacerazioni e lasciato ingenti strascichi nel dopoguerra.
Anzitutto una grande ferita si è formata a seguito della guerra scatenata dalle formazioni terroristiche e partigiane comuniste nel Nord del Paese, un conflitto feroce, che ha coinvolto italiani quartiere per quartiere, caseggiato per caseggiato — soprattutto gli alloggi popolari delle grandi città come Milano, Torino e Roma. Una guerra fatta di omicidi politici, di attentati terroristici — da via Rasella a Roma in poi — e rinfocolata dalle rappresaglie provocate. Una guerra che aggravava lo scontro bellico fra i due eserciti stranieri, quello a guida nazionalsocialista al nord e quello alleato che risaliva dalla Sicilia — ciascuno con la sua "appendice" di formazioni italiane — che si combattevano lungo la Penisola. Una guerra che macchiava lo sforzo reale di liberare il Paese che tanti militari e civili nelle formazioni partigiane disinteressatamente perseguivano. Una guerra civile che la parte vittoriosa ha continuato anche dopo la fine delle ostilità, proseguendo con omicidi e "pulizie di classe", umiliazioni e minacce per i vinti, fino almeno al 1948: i molti volumi di Giampaolo Pansa ne sono la più recente e sensazionale riscoperta.
La grave lacerazione non deve fare tuttavia dimenticare la parentela che esiste fra le diverse ideologie che hanno operato durante la guerra civile e che operativamente le assocerà all’interno del Cln e poi nell’Assemblea Costituente e nei governi nazionali e locali: l’espulsione dei comunisti per ragioni internazionali dal governo dello Stato nel 1947 sarà alla lunga "ricuperata" per iniziativa del partito democristiano e sarà del tutto dimenticata nei governi "di unità nazionale" della fine degli anni 1970.
La stessa ideologia del regime sconfitto, il fascismo, nasce dal socialismo, si unisce al nazionalismo dopo la Grande Guerra e soltanto durante il ventennio assume posizioni conservatrici — per interesse o per convinzione è difficile da valutare —, ostili al processo di ideologizzazione sviluppatosi nel Paese appunto a partire dal Risorgimento.
Forse questo — una rivalità fra "cugini" — può spiegare meglio la ferocia della guerra civile su un piano strettamente umano, anche perché coloro che cambiano partito devono assumere velocemente credibilità nella nuova formazione partitica che hanno sposato. Tuttavia anche questo merita una ulteriore riflessione: il via vai di socialisti diventati interventisti, nazionalisti e poi fascisti negli anni attorno alla Grande Guerra, così come gli intellettuali fascisti diventati, senza grandi traumi, antifascisti o di diverso orientamento ideologico o persino comunisti, durante e dopo la seconda guerra mondiale, dovrebbe favorire una riflessione sul fatto che tutte le diverse ideologie moderne che hanno attraversato la storia italiana facevano tutte riferimento al ceppo risorgimentale, sì che il passaggio da una all’altra non ha mai implicato radicali conversioni, cambiamenti nella vita e nel modo di pensare paragonabili alle grandi conversioni religiose, per esempio a quelle celebri di sant’Agostino e san Paolo, ma anche a quelle moderne, di quegli stessi anni, penso per esempio a Giovanni Papini (1881-1956).
Naturalmente questa considerazione non diminuisce il grande trauma della guerra civile ma, in un certo senso, lo rende ancora più incomprensibile, proprio per il fatto che gli attori di questa ferita inferta al corpo della nazione nella realtà, nel loro modo di pensare e di vivere, si distinguevano fra loro molto meno di quanto si creda.
Indicazioni bibliografiche
Su entrambi i temi la bibliografia è sterminata. Mi limito a segnalare i testi che hanno ispirato queste note e quelli che mi paiono utili a "introdursi" nel problema del rapporto fra Risorgimento e Resistenza.
Sulla "questione romana", cfr. Renato Cirelli, La Questione romana (1860-1929) in Voci per un Dizionario del Pensiero Forte (www.alleanzacattolica.org), e Idem, La Questione Romana. Il compimento dell’unificazione che ha diviso l’Italia, Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1997. Sulla "questione meridionale" cfr. Francesco Pappalardo, La questione meridionale in Voci per un Dizionario del Pensiero Forte (www.alleanzacattolica.org), e Idem, Giuseppe Garibaldi, Sugarco, Milano 2010. Una cronaca scritta da un contemporaneo e critica del Risorgimento è quella di Patrick Keyes O’ Clery, La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, trad. it., Ares, Milano 2000. Di F. Pappalardo sarà disponibile dal mese di giugno Il Risorgimento, Quaderni del Timone, Milano 2010, un'introduzione accessibile al tema con bibliografia. Molto utile, per le recensioni di opere sul Risorgimento e per altri articoli sul tema, il sito dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale Storia&Identità. Annali Italiani online (www.identitanazionale.it)
Uso il termine "senso comune" nel significato esposto nelle opere di mons. Antonio Livi, sintetizzate nella voce senso comune, redatta da Giovanni Cantoni in Voci per un Dizionario del Pensiero Forte (www.alleanzacattolica.org).
Sulla Resistenza una introduzione importante e accessibile anche al non specialista è l’opera di Renzo De Felice (1929-1996), Rosso e Nero, a cura di Pasquale Chessa, Baldini & Castoldi, Milano 1995. Più complessa ma di grande importanza per chi volesse approfondire è l’opera dello stesso De Felice, Mussolini l’alleato, vol. II, La guerra civile (1943-1945), Einaudi, Torino 1997.
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(1) Cfr. Giorgio Napolitano, Allocuzione rivolta al Ministro per lo Sviluppo Economico e ai componenti della Consulta per l’emissione di Carte Valori Postali e la Filatelia e della Commissione per lo Studio e l’Elaborazione delle Carte Valori Postali, in occasione della presentazione dei quattro francobolli celebrativi del 150° anniversario della Spedizione dei Mille, Roma, 15 aprile 2010.